Studio della Lettera di Giacomo cap. 3

 

3:1 §5. Giacomo 3:1-18. IL GOVERNO DELLA LINGUA E LA SAPIENZA CELESTE

V'era nelle chiese alle quali Giacomo rivolge la sua lettera circolare un difetto che gli stava particolarmente a cuore di segnalare e di correggere; e infatti due volte di già egli, sia pur di passata, vi ha accennato, esortando ad esser "tardo nel parlare" e a "tener a freno la lingua" Giacomo 1:19,26. Ora egli ne tratta di proposito combattendo la smania di farla da maestri agli altri, senza riflettere che chi vuole insegnar gli altri aumenta la propria responsabilità e si espone ad accrescere il numero di quei peccati di lingua che sono così facili a commettersi e così difficili ad evitarsi. Chi è veramente intelligente e savio, meglio che colle parole, lo deve dimostrare colla sua buona condotta ispirata a sentimenti di mansuetudine, di bontà e di pace.

Il difetto della dottoromania, com'è stato chiamato, era uno dei difetti nazionali degli Ebrei, i quali, orgogliosi della loro superiore conoscenza religiosa di fronte ai pagani privi della rivelazione, si davano come «guide dei ciechi, luce di quelli che son nelle tenebre, educatori degli scempi, maestri dei fanciulli»; dimenticando però una cosa d'importanza somma, cioè d'insegnar se stessi Romani 2:17-29. Sembra che nelle chiese giudeo cristiane ove il conoscere intellettualmente la verità era considerato come cosa più importante del praticarla, la smania di farsi avanti per sfoggiare la propria conoscenza nell'insegnare gli altri fosse diventata un flagello nelle raunanze, flagello tanto più funesto che troppo spesso la parola vi serviva ad alimentare dispute e odii ed a fomentar disordini.

Fratelli miei, non siate molti a far da maestri, sapendo che ne riceveremo un più severo giudicio.

Letteralmente non siate molti maestri... o dottori. L'autore vuol egli dire: Non siate molti ad aspirare all'ufficio ecclesiastico del dottore o del vescovo (Cfr. 1Timoteo 3:1). Non pochi interpreti lo credono ed intitolano addirittura il §: "Della vocazione del dottore". Così ad es. il Ropes. Ma non si comprende, in quel caso, l'assenza di ogni allusione all'esercizio dell'ufficio nei versi che seguono. Inoltre l'accentramento dell'insegnamento religioso in un ufficio ecclesiastico, quello del soprintendente o vescovo della congregazione, è cosa posteriore alla data più probabile della nostra epistola. Prima di quell'epoca l'insegnamento evangelico è dato dagli apostoli ed evangelisti che fondano le chiese, e in loro assenza dai fratelli che hanno ricevuto un dono speciale o carisma dallo Spirito e parlano sotto l'impulso di esso, per l'edificazione della chiesa 1Corinzi 12:28; Atti 13:1. Un quadro caratteristico di una raunanza cristiana di quei tempi l'abbiamo in 1Corinzi 14. «Quando vi radunate, avendo ciascun di voi un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione... facciasi ogni cosa per l'edificazione... Parlino due o tre profeti e gli altri giudichino... Dio non è un Dio di confusione, ma di pace». Come a Corinto molti aspiravano al dono della glossolalia che più colpiva l'immaginazione, così, nelle chiese giudeo-cristiane, molti avevano la smania di farsi avanti nelle raunanze per far da maestri ai loro fratelli senza aver perciò l'autorità morale derivante dalla loro vita cristiana. I Troppi fra voi, vuol dire Giacomo, hanno la passione vanitosa, impaziente di rappresentare una parte, sotto pretesto di zelo e di desiderio di correggere altrui, senz'averne il diritto. Malattia questa a cui vanno soggetti anche coloro che non parlano in pubblico. Malattia pericolosa, nota il Chapuis, perchè quei presuntuosi correggitori degli altri tolgono a se stessi la scusa dell'ignoranza e il merito dell'umiltà e traggon su di sè un giudizio più severo. Infatti, chi insegua gli altri ha, o professa di avere, una conoscenza chiara e piena del dovere ed è quindi tanto più tenuto di ubbidire ad esso. Se non lo fa, sarà dal supremo Giudice trattato con maggior severità degli altri. "Il servitore, dice Gesù, che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha fatto nulla per compierla, sarà battuto di molti colpi... A chi molto è stato dato, molto sarà ridomandato" Luca 12:47-48. Questo lo sanno, o lo devono sapere, i lettori e perciò Giacomo dice: sa pendo che ne riceveremo... mettendo se stesso, come dottore, nel numero dei credenti aventi maggior responsabilità.

2 Poichè tutti falliamo in molte cose. Se uno non falla nel parlare, esso è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo.

Il poichè introduce una ragione speciale per cui chi vuol fare il maestro degli altri si espone al pericolo di una più severa condanna. Oltre ai peccati in cui cadono tutti i cristiani e che dovrebbero tenerli umili e guardinghi nel correggere gli altri, essi si espongono a commettere in maggior numero quei peccati della lingua dai quali è così difficile rendersi immuni. Ciò è tanto difficile, che chi non falla nel parlare si può chiamare un uomo perfetto, giunto al suo completo sviluppo morale, perchè avendo riportato la vittoria sul nemico più importante, più potente, più insistente nel circondarci d'insidie in ogni ora della nostra vita, più pronto nell'approfittare di ogni circostanza, di ogni rallentamento di vigilanza, più abile nel travestirsi in mille guise diverse, egli si è dimostrato capace di tenere a freno anche tutto il corpo, come ha tenuto a frenò la lingua che n'è il membro più irrequieto e più difficile a domare. San Giacomo parla di tenere a freno il corpo, la lingua Giacomo 1:26, non perchè crede che il peccato risieda nelle membra del corpo che non sono se non gli organi per mezzo dei quali si esprime ed agisce lo spirito. Egli si serve del linguaggio popolare che trova la sua spiegazione nel fatto che le manifestazioni più cospicue del male sono connesse col corpo e che il corpo, a forza di servir di strumento alle passioni, appare come identificato con esse. Paolo dice Romani 6:12-13: «Non regni dunque il peccato nel vostro corpo mortale per ubbidirgli nelle sue concupiscenze; e non prestate le vostre membra come strumenti d'iniquità al peccato; ma presentate voi stessi, a Dio come di morti fatti viventi, e le vostre membra come strumenti di giustizia a Dio» (Cfr. Romani 8:13).

3 L'importanza e la potenza della lingua ossia della parola umana, specialmente nella sfera del male, è illustrata da Giacomo con tre similitudini: quella del freno, quella del timone e quella del piccol fuoco: tre cose di piccole dimensioni come lo è la lingua di fronte alle altre membra, ma la cui importanza va misurata, dagli effetti che se ne traggono.

Vedete, noi mettiamo il freno (letteralmente i freni) in bocca ai cavalli perchè ci ubbidiscano, e guidiamo qua e là tutto quanto il loro corpo.

I manoscritti ci offrono tre lezioni al principio del verso: la lez. ordinaria ( ιδου=ecco), che non ha per sè altro che pochi minuscoli; la lez. ει δε=se... appoggiata dai codd. B, A, K, L e adottata da valenti critici quali Lachmann, Tischendorf, Nestle ecc., lezione che dà un senso buono: "Se mettiamo i freni... noi guidiamo qua e là tutto quanto...". La terza lezione ιδε (vedi, vedete, ecco) si trova nei codd. C, P, Sinaitico che porta ειδε γαρ, e in alcune versioni antiche. È preferita da alcuni critici perchè nelle frasi parallele Giacomo 3:4-5 si ha, ecco, e perchè le altre si spiegano facilmente come errore ortografico dovuto alla pronunzia itacista dei dittonghi. Il senso resta sostanzialmente lo stesso. Avviene degli uomini come dei cavalli: quando si riesce a mettere il freno nella bocca si è sicuri di poter governare tutto il corpo, e come chi tiene in mano il piccol freno è padrone del cavallo, così chi sa frenar la propria lingua è padrone di tutto se stesso. Il paragone illustra in tal guisa la verità espressa nella 2a parte di Giacomo 3:2 e mostra l'importanza della lingua nella vita morale dell'uomo.

4 Ecco, anche le navi, benchè siano così grandi e sian sospinte dà fieri venti, son dirette da un piccolissimo timone dovunque vuole l'impulso di chi le dirige.

Qui è posto in rilievo il contrasto tra la piccolezza del timone col quale si governa la nave e la gran mole di essa. La potenza del piccolo timone appare tanto più evidente se si considera ch'esso governa la gran mole non solo quando il mare è calmo, ma quando forti venti agitano le onde e imprimono alla nave movimenti incomposti e violenti. Il sostantivo vale propriamente "moto" ed è inteso dagli uni dell'impulso che il pilota imprime al timone; dai più del "moto dell'animo", cioè del desiderio, dell'intento, del fermo proposito del pilota incaricato della direzione della nave. Si trova solo in Atti 14:5 nel N.T.

5 Così anche la lingua è un piccol membro e si vanta di grandi cose.

Di solito, il termine qui adoprato da Giacomo ( μεγαλαυχει o, come l'hanno alcuni msc., μ. α. in due parole) si usa in mala parte per indicare l'orgoglioso millantare; e certo l'orgoglio c'è, ma sussistono pure le grandi cose su cui si fonda il vanto della lingua; sussistono per il bene e sussistono in maggior copia nella sfera del male ch'è la sola contemplata dall'autore. nei versi seguenti ove descrive, con brevi tocchi, la potenza funesta della lingua.

Vedete un piccol fuoco, che vasta foresta incendia!

La lezione accettata dai critici e poggiante sui codd. B, alef, A, C, P porta due volte l'agg. ἡλικος che ordinariamente significa quanto grande, ma può significare pure quanto piccolo. Si potrebbe quindi rendete il senso così: "Vedete che picciol fuoco (una scintilla) basta ad appiccare. l'incendio ad una gran foresta! La parola ὑλη può designare una quantità di legna, ma il suo senso ordinario di "foresta" si adatta molto bene al contesto ed è da preferire. Si citano molti esempi classici di prosatori e di poeti, cominciando, da Omero, i quali hanno descritto colla similitudine della "parva favilla" e del vasto incendio, i grandi mali (talvolta anche i beni) prodotti da cause in apparenza minime, o sviluppatisi da umilissimi principii. Gesù stesso ha paragonato la potenza purificatrice del Vangelo ad un fuoco ch'egli è venuto a gittare in terra e che cominciava ad accendersi durante il suo ministerio Luca 12:49. Ma qui l'autore non considera che l'influenza cattiva della lingua e Giacomo 3:6 contiene varie affermazioni rapide, concise, descriventi ciascuna un particolare aspetto del potere malefico della lingua.

6 Anche la lingua è un fuoco,

un piccol fuoco che può destare grandi incendi. Cos'è una parola? Poca cosa in apparenza; eppure come una scintilla elettrica dando fuoco ad una mina può far saltare un monte, così una parola offensiva fa divampare in noi le fiamme, della collera, del risentimento, del rancore, dell'odio. Come un fiammifero può appiccar l'incendio a una intera città, una calunnia può distrugger la buona riputazione di migliaia di persone, un oltraggio può accender sempiterni odii tra le famiglie, determinare guerre devastatrici fra i popoli.

è il mondo dell'iniquità.

Considerando tutto il male fatto dalla lingua, anzi dai milioni delle lingue umane in attività continua sulla terra intera, Giacomo la chiama il mondo dell'iniquità. Essa rappresenta l'insieme, la nefasta totalità dell'iniquità umana. Non v'è peccato al quale non dia origine o non contribuisca la lingua. I peccati della lingua rivestono una estrema varietà. «Nel vasto regno del male i peccati della lingua sono la tribù più ricca di specie. Ve ne sono di ogni sorta, dalle più innocenti in apparenza alle più pericolose, dai peccatucci che fanno sorridere fino a quegli abusi della parola che sono dei delitti. C'è la curiosità, l'indiscrezione, la sbadataggine, l'insolenza ecc...C'è la leggerezza maligna, la ciarlataneria, c'è l'adulazione che acceca, la calunnia che morde, la maldicenza che lacera, la licenza che contamina la mente e il cuore, la menzogna sopratutto, di cui son tollerate nella società tante forme che si chiamano innocenti e perfino pie. La menzogna da sè costituisce un mondo in quel mondo d'iniquità. Prova ne sia la moltitudine dei termini che servono ad esprimerla: simulazione, dissimulazione, finta, ipocrisia, bugia, favola, fandonia, falsità, mistificazione, impostura, inganno, ecc. ecc.» (da Chapuis).

Posta com'è fra le nostre membra, la lingua è quella che contamina tutto il corpo.

Cominciamo a questo punto una nuova frase, pur riconoscendo che l'estrema concisione dello stile rende difficile il pronunziarsi con assoluta certezza. Infatti altri (Tischendorf, Nestle) fanno del v. 6 una sola frase. Altri ancora principiano dopo fuoco: "Mondo d'iniquità qual'essa è, la lingua si presenta in mezzo alle nostre membra come quella che contamina..." ma l'articolo davanti alla parola "mondo" andrebbe in quel caso soppresso. Chi non trova soddisfacente nè un modo nè l'altro di costruzione, ricorre all'espediente disperato ed arbitrario di dichiarare inautentiche le parole: "anche la lingua è un fuoco, il mondo dell'iniquità", oppure soltanto le ultime. Il verbo reso posta com'è ( καθισταται) vale propriamente: "si presenta, sta". La lingua sta fra le nostre membra come quella che contamina moralmente tutto il corpo al quale appartiene (ch'è quanto dire tutto l'essere umano di cui la parola è facoltà così importante), perchè essa è strumento per commettere e far commettere iniquità. Ora il peccato, secondo una figura frequente nell'A.T. e familiare ai Giudei, è una sozzura che contamina la creatura che Dio volle e creò pura. Cfr. Marco 7:1-23 le dichiarazioni di Cristo sulla vera contaminazione. Certo l'immagine della sozzura non ha che fare con quella del fuoco, alla quale, però, l'autore ritorna subito dopo, quando aggiunge:

e infiamma la ruota della vita umana ed è infiammata dalla geenna.

La gran diversità d'interpretazioni della ruota della vita deriva anzitutto dal fatto che il termine greco può significare corso e ruota; poi dal senso più o meno largo che si può dare alla parola genesi che vale nascita, discendenza, generazione. Sebbene l'espressione "corso della vita" sia forse in italiano quella che rende meglio l'idea dell'autore, crediamo che alla sua mente fosse presente l'immagine di una ruota in fiamme, mentre un "corso" infiammato è cosa più difficile a immaginarsi. Ci atteniamo per il senso di genesi all'idea di vita umana cominciata alla nascita e il cui ciclo si svolge rapidamente come in un incessante moto rotativo fino al suo termine ch'è la morte. Allora la "ruota si rompe" Ecclesiaste 12:8. Altri, non trattenuti dal fatto che gènesis è al singolare; ne allargano il senso e ci vedono, come la versione siriaca del IIo sec., "le successioni delle nostre generazioni che corrono a guisa di ruote", ovvero addirittura la ruota della creazione o della natura, ristretta però all'umanità. E danno come ragione che, in armonia coll'immagine del piccol fuoco determinante un vasto incendio, l'autore ha dovuto mirare a descriver la vastità dei danni prodotti dal cattivo uso della lingua. In fondo, a questo risultato si arriva ugualmente anche se si mantiene il senso prima indicato, poichè se ogni vita umana sulla terra corre come ruota in fiamme, per effetto dell'attività incendiaria della lingua, l'intera generazione umana presente e futura non potrà presentare aspetto diverso. Apparirà come agitata, tormentata, consumata dalla fiamma multiforme delle passioni accese od attivate dall'uso malvagio della parola che, parlata o scritta, accende l'impurità, le concupiscenze, gli odii, i rancori, le guerre e ogni sorta di mali. Ad un'attività così malefica la lingua (e vogliam dire il cuore umano di cui la lingua esprime i sentimenti) è spinta da una potenza malvagia che fin da principio, mentendo, trascinò nella colpa il primo uomo. Quella potenza che la Scrittura chiama Satana o il diavolo, è qui rappresentata dal termine Geenna che vale propriamente: "valle di Hinnom", una valle al Sud-Ovest di Gerusalemme ove s'erano offerti dei sacrifici umani e che fu adibita più tardi a luogo ove si versavano e si ardevano in fuochi perenni le immondizie. Perciò divenne simbolo d'inferno, soggiorno dei demoni, ed in quel senso lo troviamo usato qui come pure in Matteo 5:22; 18:9; Marco 9:45. Infiammata da una fiamma infernale, la lingua infiamma a sua volta le vite umane nel loro corso.

7 Il peggio si è che cotesta potenza malefica della lingua è indomabile o, per lo meno, difficilissima a domarsi.

Infatti, ogni sorta di fiere e d'uccelli, di rettili e di animali marini si doma, ed è stata domata dalla razza umana;

L'infatti aggiunge una nuova ragione del carattere terribile della lingua. Essa non si può domare. Mentre le varie categorie d'animali indicate qui, sotto quattro capi come nel primo Capitolo della Genesi che non ha carattere di nomenclatura scientifica, sono stati in passato e sono anche al presente domati dalla specie (o: natura) umana, nessun uomo può domare la lingua e s'intende non tanto quella degli altri quanto la propria. Certo un qualche controllo l'uomo lo può esercitare sulle sue parole; ma basta che una ventata di passione scenda sull'anima, perchè le parole rompano ogni freno. D'altronde se il domar la lingua è impossibile alle sole forze dell'uomo, ciò non vuol dire che la cosa sia impossibile alla grazia di Dio; ma, come ha notato in Giacomo 3:2, quando la grazia ha riportata quella vittoria difficilissima, l'uomo può dirsi "perfetto".

8 è un male che non ha posa.

Il testo oscilla tra due parole di cui l'una accettata dai maggiori critici, poggianti sui Codd. alef, A, B, e meno comune (ακαταστατος), caratterizza la lingua come un male senza posa, irrequieto, sempre attivo, sempre avverso ad ogni norma; l'altra, poggiante sui codd. C, K, L, Syr., quella del testo recepto (ακατασχετος), si riannoda più strettamente al carattere indomabile della lingua e significa "che non si può reprimere" o "contenere".

è piena di mortifero veleno.

L'immagine energicamente espressiva s'incontra di già nell'A.T., per es. Salmi 140:3: "Aguzzano la loro lingua come il serpente, hanno un veleno d'aspide sotto le lor labbra". «Spesso, nota il Chapuis, sotto il dente d'un rettile, nell'aculeo d'un insetto, nel succo di una pianta, c'è un veleno sottile che il microscopio non discerne, che l'analisi chimica non scopre: e una goccia sola infiamma il sangue, paralizza i nervi, determina un'angoscia intollerabile e quindi la morte in pochi minuti. La lingua stilla quel terribile veleno. Una goccia di quel veleno ed ecco degli innocenti perduti, dei fanciulli pervertiti, delle riputazioni macchiate, dei cuori irritati, spezzati, delle esistenze rose dalla febbre, delle menti colpite di pazzia, delle vite in pericolo, le fonti stesse di ogni vita e di ogni bene avvelenate per sempre!»

Dalla descrizione generale della potenza malefica della lingua, Giacomo, nel concludere, viene a segnalare un male che riguarda da vicino i suoi lettori cristiani. Nel correggerlo egli usa il noi ch'è in lui garanzia di umiltà, e li esorta con affetto come suoi fratelli Giacomo 3:10. Nell'uso che fanno della parola, si rivela nei credenti anche provetti, il dualismo interno doloroso che persiste nella loro vita morale finchè sono quaggiù. Vi sono in essi due uomini: l'uomo vecchio che stenta a morire e l'uomo nuovo; e la lingua, come l'altre membra, è strumento or dell'uno ed or dell'altro. Ciò accade in grado più alto nei cristiani che sono tali più per professione intellettuale che per condotta pratica. Da ciò nasce l'incoerenza qui notata da Giacomo come cosa contraria all'ordine stesso di natura.

9 Con essa benediciamo il Signore e Padre; e con essa malediciamo gli uomini che son fatti a somiglianza di Dio.

Il testo ordinario porta l'Iddio e Padre [nostro], ma i più antichi codici hanno il Signore che accentua la sovranità di Dio su tutte le creature, mentre il termine Padre ricorda la sua bontà infinita. Il lodare, ringraziare Dio avveniva non solo nel culto pubblico, ma in molte occasioni della vita in cui si solevano usare, da Giudei e da giudeo-cristiani, formule di lode e di ringraziamento. Solo, da quella stessa bocca che avea piamente lodato Iddio, ecco che poco dopo, uscivano parole aspre di giudizi temerari, anzi di odio, anzi addirittura di maledizione presente e futura contro gli uomini che pure, come attesta il racconto della creazione, sono fatti a somiglianza di Dio e nei quali, nonostante il peccato, permangono tracce di quella indelebile nobiltà d'origine.

10 Dalla medesima bocca procede benedizione e maledizione;

benedizione che si riferisce a Dio e maledizione che brama ed invoca mali temporali ed eterni sulle creature di Dio e che viene così indirettamente a colpire anche Dio stesso.

Fratelli miei, non bisogna che avvenga una tal cosa ed in cotesto modo.

Il greco non ha ché due parole per indicar, colla prima ( ταυτα quelle cose) la sostanza di quel che non deve avvenire, colla seconda (ὁυτως, così) il modo ripugnante in cui la cosa avviene. È in sè cosa riprovevole maledire il nostro prossimo, ma lo è doppiamente quando la maledizione esce da una bocca cristiana che poco prima lodava il Padre ch'è nei cieli. Ad evitare equivoci abbiam dovuto intercalare una, congiunzione per significare che si tratta di due idee distinte. Un fatto simile non dovrebbe verificarsi perchè è contrario all'ordine di natura di cui l'autore reca alcuni esempi.

11 La fonte getta essa dalla medesima apertura il dolce e l'amaro?

Mentre l'altipiano palestinese è ricco di sorgenti d'acqua dolce, lungo le rive del Mar Morto e del Giordano non sono rare le sorgenti d'acqua salsa in cui entrano principii amari. In un paese caldo, siffatte sorgenti sono considerate come una maledizione perchè le carovane non vi si possono dissetare. Cfr. Esodo 15:23; 2Re 2:19-22. Ad ogni modo ogni sorgente, dall'apertura della roccia da cui esce, non getta che acqua dolce od acqua, amara; mai le due alternativamente.

12 Può, fratelli miei, un fico fare ulive, o una vite fichi?

Nella natura, ogni albero non può dare e non dà se non frutti conformi alla sua natura, rispondenti alla sua specie. Gli esempi addotti sono presi dagli alberi fruttiferi più comuni in Palestina: il fico, l'ulivo, la vite. Mentre nel mondo vegetale e minerale tutto procede secondo le leggi fissate da Dio, solo l'uomo, abusando della libertà che gli fu data, ha violato la legge della sua natura. Creato per lodare Iddio e amare il prossimo, anche quando benedice Dio (e la generalità non lo fa), gli avviene per una strana incoerenza e contradizione che porta in sè, di maledire i suoi simili e di agir così contro natura.

Neppure può una fonte salata (letteralmente [acqua] salata) dare acqua dolce.

Forse si oltrepassa il pensiero dell'autore quando da quest'ultima osservazione si trae la conseguenza che chi maledice il prossimo (la fonte salata), se poi benedice Iddio (dà acqua dolce), non lo può fare con sincerità; quindi è un ipocrita.

13 Chi è savio e intelligente fra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere in mansuetudine di sapienza.

Il nesso di Giacomo 3:13-18 con quel che precede sta in questo: che chi ha il desiderio di farsi avanti per insegnare gli altri (cfr. Giacomo 3:1) si stima necessariamente più savio e più istruito di loro; ma questa buona opinione di sè non basta; bisogna provare che si possiede la vera sapienza, coi fatti, con una vita santa penetrata dalla dolcezza della carità. La forma interrogativa che dà vivacità allo stile si trova molte volte nell'A.T. Es. Salmi 34:12: "Qual è l'uomo che desideri la vita?", Salmi 15:1: "O Eterno, chi dimorerà nella tua tenda?...". Le due parole "savio e intendente" sono congiunte nella versione dei Settanta in Deuteronomio 1:13; 4:6; Daniele 5:12. Il Chapuis definisce la sapienza «la conoscenza della verità morale professata colle parole e colla vita». Il Revel Alb. la definisce: "la scienza della vita e la conoscenza dei mezzi onde si consegue lo scopo supremo di essa: la perfezione che in Dio risiede". L'autore del libro apocrifo La Sapienza di Salomone comincia così la sua descrizione della sapienza: «La sapienza è una fonte di luce; ella riunisce l'intelligenza, la santità...» Giacomo ne considera principalmente il lato pratico: essa è per lui sinonima di "pietà pratica" che ha di necessità per fondamento la conoscenza della verità; ma l'elemento della conoscenza esatta ed estesa della verità è espresso nella parola: "intelligente". Alla conoscenza davano importanza preponderante i lettori dell'epistola e perciò l'autore ricorda che la sapienza cristiana si ha da mostrare, meglio che colla scienza e colle parole, colle opere, cogli atti tutti della buona condotta e, poichè questo faceva più specialmente difetto presso i sedicenti savi, con la mansuetudine o mitezza ch'è propria della vera sapienza e che deve compenetrare della sua dolce influenza tutta la vita. Così dimostreranno d'esser qualificati per insegnare gli altri. In 1Pietro 3:15 l'Apostolo raccomanda ai fedeli d'esser pronti sempre a rispondere a loro difesa a chiunque domanda loro ragione della speranza ch'è in loro, ma «con dolcezza e rispetto, avendo una buona coscienza». Gesù disse: "Imparate da me, perch'io son mansueto ed umile di cuore..."; e Paolo scrive a Tito: "Ricorda loro... che non siano contenziosi, che siano benigni, mostrando ogni mansuetudine verso tutti gli uomini" Tito 3:2.

14 Ma se avete nel cuor vostro dell'invidia amara e uno spirito di contenzione, non vi gloriate e non mentite contro la verità.

Chi, invece d'ubbidire al dovere e d'aver nel cuore la mitezza che l'amore e l'umiltà ispirano, è animato da sentimenti che sono l'opposto della mitezza, avrà un bel credersi e gloriarsi d'esser savio e intelligente, avrà un bel pretendere di servir la causa della verità, egli non è nelle condizioni morali volute per compiere con, frutto una così santa opera; il suo gloriarsi, tutta l'attività sua, invece di favorire la penetrazione della verità vi è contraria, e si può chiamare un mentire contro la verità, un professarla a parole e uno smentirla, un tradirla nella vita pratica. Invece d'invidia molti interpreti hanno "zelo" e infatti il greco ζηλος (zelo) derivato da ζεω (essere ardente) designa un ardore interno che può essere un santo zelo, come quando si parla dello "zelo della casa di Dio" Giovanni 2:17, dello "zelo per Dio" (letteralmente di Dio, Romani 10:2), dello zelo dei Corinzi per la colletta a favor dei poveri di Giudea 2Corinzi 9:2, può essere anche una nobile emulazione nell'imitare il bene che si ammira in altri; ma può essere pure il bruciore interno dell'invidia che si duole del bene altrui e lo vorrebbe diminuire o sopprimere; che si adopera a tale scopo colla maldicenza e con gli attacchi astiosi. Presa in questo senso cattivo, vediamo la parola accoppiata con le contese Romani 13:13, colle gelosie, le ire, le maldicenze, le insinuazioni... (2Corinzi 12:20 tradotto ivi "rivalità"), e posta tra le opere della carne insieme con le inimicizie, la discordia, le ire, le contese, le divisioni ecc., in Galati 5:20 ov'è trad. "gelosia". Che sia usata qui in senso cattivo risulta dal fatto ch'è accoppiata Giacomo 3:14,16 con lo "spirito di contenzione" o "di parte" e qualificata dall'agg. amaro che ne indica il carattere astioso, velenoso. Quando si tenga in mente che Giacomo ha esortato i lettori ad esser tardi al parlare, lenti all'ira, a tener a freno la lingua, e che fra breve domanderà: "Donde vengon le guerre e le contese fra voi?" e li esorterà a non parlare gli uni contro gli altri Giacomo 4:1,11, a non mormorare gli uni contro gli altri Giacomo 5:9, non si troverà strano che mentovi qui l'invidia amara e lo "spirito di parte" come esistenti nel cuore di parecchi dei suoi fratelli. Vi dovevano esser nelle chiese cui scrive delle divisioni interne, delle inimicizie, dei partiti, delle aspre discussioni e dispute, dell'orgoglio, delle maldicenze; cose tutte che non erano favorevoli nè ai progressi dei credenti nella pietà, nè alla conquista di anime non credenti, alla fede. Col senso alquanto attenuato di "zelo amaro" si alluderebbe allo zelo professato dai dottori zeloti per la causa della verità, zelo ispirato non dall'amore del prossimo, ma dalla brama egoista di far trionfar le proprie opinioni, il proprio partito, con tutti i mezzi.

15 Questa non è la sapienza che scende dall'alto, anzi ella è terrena, carnale, diabolica.

Se la mansuetudine è carattere proprio della sapienza necessaria ai dottori cristiani, essa non può esistere dove il cuore è pieno d'invidia amara e di spirito di contenzione. E se in quel caso si parla ancora di sapienza, essa è di natura del tutto diversa. Invece di scender dall'alto come dono di Dio che n'è la fonte Giacomo 1:5,17, essa è terrena, appartiene alla terra, non si preoccupa che della terra è non l'irradia alcun pensiero del futuro nè alcuna luce celeste. Dante rappresenta i falsi savi colla testa volta all'indietro. "Essa non ha nulla di nobile e di divino, non è nè un aiuto nè una luce" (Cellérier). Invece d'essere il frutto dell'azione dello Spirito di sapienza sullo spirito dell'uomo, essa è carnale o letteralmente psichica procedente dall'anima considerata come sede della vita inferiore degli appetiti ed istinti che l'uomo ha in comune colle bestie, dall'anima per opposizione allo spirito ch'è l'elemento divino nell'uomo. Si traduce "carnale" in mancanza d'un termine più adatto, perchè nel N.T. la "carne" è spesso la natura umana aliena da Dio, priva dello Spirito. Confronta per il senso di "psichico" Giuda 19; 1Corinzi 2:14; 15:44-46. Invece d'ispirarsi alla santità, alla bontà, alle compassioni di Dio. la falsa sapienza è demoniaca nella sua origine ultima e nella sua ispirazione piena di odio, di malvagità, d'invidia e d'orgoglio. C'è un triste crescendo nelle caratteristiche date della falsa sapienza; e i frutti ch'ella dà confermano la verità della descrizione fattane.

16 Poichè, dove sono invidia e contenzione, quivi e disordine ed ogni mala azione.

"Disordine" nei sentimenti e disordini nelle comunità dilaniate da partiti che si combattono senza scrupoli. Quindi è che Giacomo aggiunge ogni mala azione. «È impossibile, osserva il Chapuis, che lo zelo amaro non si associ ad animosità, violenze ed anche persecuzioni (più o meno aperte) legittimate in apparenza da motivi religiosi».

17 Ma la sapienza che è da alto, prima è pura.

Che la sapienza vera sia dono del cielo l'autore lo ha affermato in Giacomo 1 e non pochi passi dell'A.T. l'insegnano. "La Sapienza dove trovarla?" esclama Giobbe. «L'uomo non ne sa la via e non la si trova sulla terrà dei viventi... Donde vien dunque la Sapienza... Dio solo conosce la via che vi mena...» Giobbe 28. "L'Eterno dà la sapienza", dice Proverbi 2:6. I libri apocrifi sapienziali lo proclamano a loro volta: "Ogni sapienza viene dal Signore, dice Siracide 1:1,8. Egli solo è savio". "Dio solo fa trovar la sapienza. Essa è il soffio della potenza di Dio... lo splendor della sua divina luce... l'immagine della sua bontà..." Così si esprime l'autor della Sap. Salom. 7. E Filone la dice "piovuta dall'alto, dal cielo". La sua origine divina si palesa nei caratteri che la contraddistinguono. Il primo e più importante è la purezza: ella è pura d'invidia, di malizia, di tutto quel ch'è vile, torbido, peccaminoso.

poi pacifica,

amica della pace, procacciante la pace Matteo 5:9. È l'opposto dello spirito di contenzione.

mite,

perchè non s'impunta a mantenere fino all'estremo il suo diritto legale, ma sa esser equa verso il prossimo, tenendo conto delle sue ragioni e delle circostanze tutte che sono in favore di lui. Dio il quale "conosce la nostra natura e si ricorda che siam polvere...", Dio che non ci ha trattato secondo i nostri peccati, ch'è "pietoso e clemente" è chiamato επιεικης (mite, clemente) nella versione dei Settanta Salmi 85:5. Una mitezza siffatta che non è debolezza e che in fondo non è che giustizia verso il prossimo, è figlia di quella carità ch'è paziente, benigna... che non sospetta il male... che crede ogni cosa, spera ogni cosa 1Corinzi 13.

arrendevole,

non ostinata nel sostener le proprie vedute, ma conciliante, disposta a lasciarsi persuadere dalle ragioni altrui, pronta a riconoscere la verità e la ragione dovunque si trovino, anche in bocca a degli avversari.

piena di misericordia e di buoni frutti,

l'opposto dell'odio e della durezza che portano ad essere ingiusti, a maledire gli uomini; l'opposto pure delle male azioni ispirate dalla sapienza demoniaca. In questo come in tutto il resto, Cristo ci dà il perfetto modello della sapienza celeste.

Senza parzialità e senza ipocrisia.

Il termine αδιακριτος che rendiamo senza parzialità è stato molto variamente inteso a seconda che lo si connette coll'uno o coll'altro senso del verbo da cui deriva. Così gli uni lo traducono "senza dubitazione" o "senza esitazioni" (cfr. Giacomo 1:6), e vorrebbe dire che la sapienza celeste non esita e non tentenna quando si trova davanti al dovere. Sarà arrendevole in altre cose, ma saprà dire anche, come Lutero a Worms: «la mia coscienza è legata dalla Parola di Dio... non posso altrimenti». Altri connettendo il senso dell'agg. con quello del verbo in Giacomo 2:4, traducono "senza parzialità", cioè senza far distinzioni fra persona e persona, non approvando negli uni quel che si condanna in altri d'altro partito o d'altra classe sociale; ma chiamando bene il bene, male il male senza riguardi personali. La Vulgata porta "non judicans" che si spiega "non giudicante temerariamente", ma un tal senso non si può giustificare. L'ultima caratteristica, la sincerità, non offre difficoltà. L'agg. reso senza ipocrisia trovasi applicato varie volte nel N.T. alla fede 1Timoteo 1:5; 2Timoteo 1:5 e all'amor fraterno od alla carità Romani 12:9; 2Corinzi 6:6; 1Pietro 1:22).

18 Or il frutto della giustizia si semina nella pace da coloro che s'adoprano alla pace.

In armonia con Ebrei 12:11 ove l'autore insegna che la disciplina divina "rende col tempo un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati per essa esercitati" (cfr. anche Filippesi 1:11; 2Timoteo 4:8), intendiamo l'espressione frutto di giustizia nel senso di "frutto che consiste nella giustizia", ossia nella pratica di tutto quel ch'è giusto verso Dio e verso gli uomini. Un tal frutto, che equivale alla perfezione morale, si semina nella pace, con disposizioni pacifiche di bontà, di amore per le anime, con mezzi pacifici che convincano le menti e persuadano i cuori, non con sentimenti di orgogliosa superiorità, di intollerante, arroganza che trincia condanne ed anatemi a dritta ed a manca. Dove sono cotali sentimenti e si ricorre a mezzi violenti e cattivi, il frutto della giustizia non matura nè in coloro che insegnano, nè in coloro che sono da essi insegnati e che non possono essere nelle disposizioni volute. Le ultime parole possono significare: "per coloro che s'adoprano alla pace", a beneficio loro; ovvero: "da coloro che..." (dativo dell'agente). Quest'ultimo senso sembra preferibile e contiene un'ultima raccomandazione della sapienza pacifica, mite, arrendevole. Solo quelli che s'adoprano alla pace, che sono alieni dalle contese, possono seminare con successo per sè e per gli altri, quel frutto della giustizia ch'è in cima alle aspirazioni dell'anima umana.

AMMAESTRAMENTI

1. Mentre vi son dei cristiani umili e modesti che hanno bisogno d'essere incoraggiati a testimoniare della verità ricevuta nel cuore, a far valere i doni ricevuti a pro dei loro fratelli o in genere a pro del loro prossimo, ve ne sono altri che hanno bisogno d'esser trattenuti perchè sono fin troppo proclivi a sostituir le parole alle opere della vita cristiana; fin troppo bramosi di far da maestri agli altri. A loro va ricordato il dovere d'esser "pronti ad udire", ad imparare a sperimentare in sè la verità, prima d'insegnarla ad altri; va ricordato ché non molti, anzi pochi son quelli che hanno i doni ed i requisiti morali e spirituali necessari all'insegnamento cristiano; che bisogna esser ben certi di ubbidire, non a dei moventi carnali, ma ad una vocazione divina quando uno imprende a maneggiar la Parola di Dio; va ricordato pure che chi insegna ha maggior responsabilità degli altri e, se si rende colpevole, va incontro ad un giudizio più severo; e infine non va taciuto il maggior pericolo, al quale è esposto il dottore o il predicatore, di non governar bene la propria lingua. Il predicatore del Vangelo può peccare in parole col mettere innanzi le sue proprie vedute invece della verità rivelata circa la salvazione; può peccare col non presentar la verità con la dovuta chiarezza e semplicità, col presentarla in modo offensivo con sentimenti settarii d'orgoglio e di odio anzichè di amore e di mitezza. Può, in breve, servirsi della parola in modo da allontanare le anime dalla verità invece di attirarle.

2. "Non pochi, ai nostri giorni, osserva Oosterzee, fanno i maestri e conduttori delle congregazioni, senza esser preparati abbastanza per quell'opera, importante e difficile..." Dove difettano gli operai, le autorità ecclesiastiche sono indotte ad affidar la direzione delle chiese a persone che sono forse moralmente atte a ciò, ma che dal lato della capacità intellettuale e della coltura non sono all'altezza necessaria e nelle cui mani incompetenti le chiese vedon compromessi i loro più alti interessi. I requisiti morali e spirituali sono la conditio sine qua non per l'esercizio del ministerio evangelico, ma non possono tener luogo della deficiente coltura. Come può un uomo predicar il vangelo in modo intelligente e utile quando ignora i primi principi di una retta interpretazione delle Scritture, quando è digiuno affatto di scienza teologica, di Storia della Chiesa e degli altri rami dell'educazione al ministerio? Chi è deficiente in fatto di cultura si metta in grado d'intender rettamente la Parola di Dio, se vuol insegnarla al popolo.

3. "Tutti falliamo in molte cose". Confessione umile di fragilità, tanto più notevole che viene da colui che fu sopranominato "il giusto" dai suoi contemporanei, e tanto più vera, ahimè! quando si tratta di noi. La coscienza delle nostre numerose mancanze ci deve rendere umili e alieni dal giudicare e condannare senza misericordia i nostri fratelli.

4. La lingua è un piccol membro; e la parola umana, in apparenza, par cosa senza importanza, tanto che diciamo talvolta: "Son parole che il vento si porta via". E certo, nei discorsi umani, abbondano le parole vane e insignificanti; ma per lo più, il linguaggio assume carattere di atto morale e la potenza morale della lingua è incalcolabile. La parola è il veicolo dei pensieri dei sentimenti e dei voleri dell'uomo; egli parla di quel che sovrabbonda nel cuore e le idee, i sentimenti d'un uomo agiscono invisibilmente sopra le idee e i sentimenti d'un altro, anzi di migliaia d'altri suoi simili, giacchè la parola ha per messaggeri e divulgatori non solo la voce e il canto, ma il manoscritto, il giornale, il libro, il fonografo, il telefono, il telegrafo; e più la civiltà moltiplica le invenzioni, più aumenta la potenza della parola, di guisa che non arriva soltanto all'orecchio d'una persona, d'una famiglia, d'una raunanza, mar giunge a nazioni intere, all'umanità contemporanea e financo alle generazioni che hanno ancora da nascere nel lontano avvenire.

Se procede da un cuor malvagio, se è infiammata da un fuoco diabolico, essa sparge l'errore, perverte e corrompe la verità, scalza la fede, getta germi d'impurità, di odii, di guerre, avvelena vite felici e tranquille, semina infiniti dolori e lagrime e rovine.

La considerazione del male invisibile, esteso, duraturo, irreparabile che la parola può fare deve indurre ogni cristiano a vegliare con ogni cura, con salda e perseverante volontà sulla propria lingua onde tenerla lontana dal male. Bando alle scuse tratte dal temperamento, dal dovere d'esser franchi, dall'esempio o dalle provocazioni altrui, dal fine buono, ecc. ecc. E poichè l'uomo è incapace, colle sole sue forze, di domarla perchè non può da sè rinnovare il suo cuore, non ci resta che recare e cuore e lingua a Colui che può e vuole affrancarci dalla servitù del male e farci santi. Purificata ed infiammata dallo Spirito di Dio, la lingua potrà essere allora un magnifico ed efficace strumento al servizio della verità, della purezza, della giustizia, della bontà, dell'amore: una potenza di vita! La parola ispirata d'un salmista quante anime ha rialzate e consolate nel corso dei secoli! La parola d'un bestemmiatore convertito, quale fu l'apostolo Paolo, quanta luce di verità e di santità ha potuto diffondere nel mondo!

5. «Con essa benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini che son fatti a somiglianza di Dio». Il Chapuis vede un commento della triste incoerenza. di cui parla Giacomo, nella storia dei concilii. «Non uno da diciotto secoli in qua che non ponga in fondo ai suoi atti la formula consacrata: "Anatema a chiunque non crede così", il che equivale al rogo in questo mondo e all'inferno nell'altro. Un solo (e non fu neanche un concilio) se ne astiene: quello di Gerusalemme presieduto da Giacomo che vi fece prevalere un consiglio di tolleranza e di carità. Ma tutti gli altri lanciano, qual più qual meno, degli anatemi. E i papi imitano i concilii. Concilii e papi si fanno, pare, uno strano dovere di benedire Dio e di maledire l'uomo. L'unire in tal guisa l'anatema alla verità, non è forse un fare ingiuria a quest'ultima? Gesù ha pronunziato dei "guai!", ma quelli erano più un ammonimento che un anatema. Ma ben diverse sono le miriadi di maledizioni che la Chiesa, dimentica dello spirito del Maestro, ha pronunziato di secolo in secolo, espellendo dal suo seno e dando alle fiamme gli eretici ed i miscredenti. E a che pro? Che cosa possono guadagnarvi la religione e la verità?»

Ma lasciando la storia, ogni credente può appropriarsi la parola: "Con la lingua benediciamo il Padre" nella preghiera, nel culto pubblico, nel canto delle sue lodi. Che n'è del prossimo? Lo giudichiamo noi duramente, lo calunniamo noi, lo insultiamo noi, lo malediciamo noi? Non dimentichiamo mai ch'egli è fatto ad immagine di Dio.

6. «L'apostolo ci presenta qui un aspetto ed una definizione del male morale, che merita d'essere rilevata perchè è giusta. Il male è male perchè non è naturale, cioè perch'esso è contrario all'ordine primordiale di Dio. Un fico che portasse ulive, l'occhio che vedesse giallo quel ch'è azzurro, sarebbero fuori dell'ordine. Così diciamo d'una cattiva madre, d'un cattivo figlio, che sono snaturati. In quel senso, si può dire di Gesù Cristo ch'egli è venuto per ristabilire l'ordine naturale, per fare appello ai principi ed alle possibilità della nostra natura qual'essa è nell'ideale di Dio. L'opera sua è la rigenerazione, non la distruzione della natura umana. La nostra natura, infatti, è d'adorar Dio e di amare quanto è simile a lui nelle sue creature. L'uomo è la voce data al mondo per lodare Iddio, e il vero ufficio della lingua è il benedirlo. Ecco perchè chi maledice, calunnia o pecca in parole, è, come insegna San Giacomo, un'anomalia, un essere uscito dall'ordine, una specie di mostro morale» (Chapuis).

7. "Se avete nel cuore" Giacomo 3:14. San Giacomo non dice: se accusate, se perseguitate, se contendete, ma se avete nel cuore le passioni che generano quegli atti, Egli conosce dunque e ricorda il principio posto da Gesù: "Dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono cattivi pensieri, fornicazioni, furti, omicidi, adulterii ecc." Marco 7:21-23. Il cuore è la sorgente delle azioni umane. Per mezzo della coscienza vediamo il bene e col cuore noi lo amiamo. È dunque per via del cuore che siamo degli esseri morali; è il cuore ch'è tutto e fa tutto nella vita. Dove non è, si può fare il bene senza esser buoni, o astenersi dal male restando cattivi. In ogni parte dell'Epistola, come qui, vediamo che Giacomo pone nel cuore il focolare del bene e la sede del male. Principio di alta importanza (Chapuis).

8. La vera sapienza viene dall'alto; essa è un dono di Dio come ogni altra grazia eccellente. L'A.T. lo proclama dovunque e perfino i savi pagani spesso lo riconoscono. Se l'uomo dipende da Dio per la sua vita materiale, per il pane che nutre il corpo, come potrebb'egli non dipender da Dio per la sua vita spirituale, per il pane dello spirito? Come al ramo è necessaria la linfa per farlo fiorire, così all'uomo son necessarie la luce e la forza divine per esser savio. Se questo era vero dell'uomo prima del peccato, quanto più ora che il peccato ha ottenebrato la mente e corrotto il cuore!

Dio comunica all'uomo la sapienza dall'alto per tre vie: mediante la sua provvidenza che pone sotto agli occhi nostri, negli eventi della vita, gl'insegnamenti della divina saviezza; mediante la San Scrittura, documento della rivelazione, che rischiara della sua luce le regioni ove la ragione non penetra; e mediante lo Spirito Santo che illumina le intelligenze e purifica i cuori (Cfr. 1Corinzi 12:8; Efesini 1:17-18; Colossesi 1:9-10). Se vogliamo posseder la sapienza che scende dall'alto, San Giacomo ce ne addita il mezzo: "Se alcun di voi manca di sapienza (e chi non è in quel caso?) la chiegga a Dio che dona a tutti liberalmente" Giacomo 1:5. "Il Padre celeste, dice Gesù, dona lo Spirito Santo (ch'è spirito di sapienza) a quelli che glielo domandano" Luca 11:13.

9. San Giacomo, nota il Chapuis, pone dinanzi a noi, un grande ideale morale verso il quale dobbiamo tendere del continuo. Quell'ideale sta nella fusione della santità colla carità. Infatti gli otto attributi o caratteri della sapienza perfetta si riassumono, secondo Giacomo, in questi due: purezza e mitezza, santità e amore. L'unione armonica di quelle due qualità, unione che costituisce la sapienza cristiana è molto rara. Non v'è carattere storico umano (salvo quello di Cristo) in cui la fusione sia completa. Gli uni sono miti, concilianti, buoni... e lo sono troppo, perchè arrivano al punto di far piegare i principii e di tradire il dovere. Sono buone paste d'uomini, ma troppo spesso molli come la pasta.

Altri, all'incontro, non concedono nulla, Sono chiamati sbarre di ferro. Sono gli uomini della legge e del dovere, i savi impassibili, ma giustificano fin troppo la parola di Calvino, che in questo non è sospetto: "Vogliono esser medici dei vizi e sono dei carnefici". Agli uni, dunque, bisogna dire: La vostra carità non è santa! E agli altri: La vostra santità non è caritatevole! Con ragione, la Bibbia dice: Dio solo è savio Romani 16:27. L'unione perfetta in Gesù della santità e dell'amore mostra ch'egli è il Nuovo Adamo venuto dall'alto, il Figliuol di Dio.

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