Studio della Lettera di Giacomo cap. 4

4:1 §6. Giacomo 4:1-12. LE PASSIONI MONDANE FONTE DI GUERRE E CONTESE

Questo paragrafo è strettamente connesso col precedente che terminava additando la pace come l'ambiente favorevole al crescere della giustizia e gli uomini dediti alla pace come i seminatori del bene morale. Per via di contrasto, l'autore, pensando con dolore allo stato delle comunità giudeo-cristiane, pone d'un tratto la domanda:

Donde vengon le guerre e donde le contese fra voi?

È un fatto innegabile che c'è fra voi dell'«invidia amara e uno spirito di contenzione», che non siete guidati dalla sapienza da alto che è pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti Giacomo 3:14,17. Ci son fra voi delle guerre, cioè non delle guerre civili, sebbene lo stato turbato della Palestina, per es., quale lo descrive Giuseppe Flavio, abbia potuto influire sulle chiese di questa regione; ma uno stato di interne discordie che si manifestano di tanto in tanto in episodii particolari che sono le contese. Infatti, nel linguaggio militare, "la guerra" ( πολεμος) è il termine generale caratterizzante uno stato che può durare a lungo, mentre i combattimenti ( μαχαι) o le battaglie, designano gli episodi salienti della guerra. D'altronde i due termini, e particolarmente il secondo, si usano spesso in senso lato parlando di dissidi interni, di contese a parole Giovanni 6:52; 2Timoteo 2:23-24; Tito 3:9.

Non è egli da questo, cioè dalle vostre passioni che guerreggiano nelle vostre membra?

San Giacomo risponde alla domanda: "donde vengono"? facendo appello alla coscienza stessa dei lettori. Per poco che riflettano si convinceranno, che la fonte delle contese è nelle passioni mondane che ardono dentro di loro. Il vocabolo di cui si serve ( ἡδοναι) significa propriamente i piaceri, le voluttà Luca 8:14; 2Pietro 2:13, quindi gli appetiti, le concupiscenze, le passioni che hanno per oggetto i piaceri, le possessioni, gli onori, le soddisfazioni che il mondo può offrire. Queste passioni hanno la lor radice nel cuore Giacomo 3:14; 4:8; ma siccome hanno per strumenti e per campo d'azione le membra del corpo, Giacomo dice che guerreggiano nelle membra. Paolo, Romani 7:23, dice: "veggo un'altra legge nelle mie membra che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigione della legge del peccato che è nelle mie membra". E Pietro 1Pietro 2:11 parla delle "carnali concupiscenze che guerreggiano contro l'anima". Qui però il "guerreggiare" si ha da riferire al conflitto tra le passioni che sono negli uni e le passioni altrettanto irrequiete e pugnaci che sono negli altri. Ad es. quelli che sono ricchi sono attaccati a quel che posseggono e avidi di sempre maggiori possessioni, e onori e godimenti. Quelli che non posseggono bramano ciò che non hanno, invidiano e odiano chi ha, e così nascon le guerre è le contese fra le opposte cupidigie.

2 Giacomo 4:2-3 mostrano, con brevi tocchi, come dalla concupiscenza del cuore, attraverso gli odii e le invidie, si giunga alle guerre ed alle contese.

Voi bramate e non avete;

Letteralmente concupite. Chiama qui concupiscenza quella stessa brama o passione che prima ha chiamato "voluttà". Essa sta alla radice del male (Cfr. Giacomo 1:14-15). San Giovanni dice 1Giovanni 2:16: «Tutto quello che è nel mondo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita non è dal Padre ma è dal mondo». I cristiani, più di nome che di fatto, ai quali scrive Giacomo, non avendo trovato ancora nei beni spirituali che sono oggetto della fede, la loro felicità, appetiscono i beni del mondo: piaceri, denaro, possessioni, considerazione, ecc. Li bramano, ma non li posseggono e la lor passione arde sempre più e crea sentimenti di odio e d'invidia verso quelli ch e posseggono i beni concupiti.

Voi uccidete ed invidiate e non potete ottenere;

Non possedendo dati sufficienti sullo stato morale delle chiese alle quali è rivolto lo scritto di Giacomo, non possiamo decidere con assoluta certezza se il termine uccidete (φονευετε ) sia da prendere nel suo senso materiale ordinario, ovvero in un senso meramente morale che corrisponderebbe all'odiare mortalmente le persone che sono di ostacolo al possesso delle cose bramate. Un tal senso trova appoggio nella parola di Giovanni: «Chi odia il suo fratello è omicida» 1Giovanni 3:15 e in quelle di Cristo che chiama adulterio lo sguardo di concupiscenza e considera come colpevole di omicidio in gestazione la collera, e gli oltraggi contro i fratelli Matteo 5:21-28. Trova inoltre appoggio nel fatto che Giacomo fa seguire l'invidiate all a uccidete, mentre se si trattasse di vero e proprio omicidio, l'invidiare dovrebbe precedere l'uccidere. C'è da tener conto pure della vivacità dei termini usati dall'autore in questo paragrafo: guerre, battaglie, guerreggiare, adultere, fate cordoglio, piangete ecc., parte dei quali sono manifestamente da intendere in senso figurativo. Da ultimo, non si comprende come, trattandosi di congregazioni cristiane, sia pur poco viventi, si potesse dir loro: "Voi uccidete" in senso proprio. Si è fatta l'ipotesi d'una qualche corruzione del testo; ma nulla nei codici manoscritti ci autorizza ad accogliere il suggerimento. S'è detto ancora l'autore fa una descrizione ideale dei risultati criminosi a cui mena il scegliere il piacere come fine della vita, invece di Dio. Ma Giacomo si rivolge a delle chiese giudeo-cristiane e combatte una piaga esistente fra loro e dice: "Voi bramate... voi invidiate... voi non chiedete... voi uccidete...". Dall'odio mortale che vedrebbe volentieri eliminate le persone che sono un ostacol o alle brame, dall'invidia che soffre di veder altri posseder i beni che hanno, s'arriva presto alla manifestazione di cotali sentimenti in atti violenti che sono appunto, nelle varie forme che possono assumere, le guerre e le contese:

voi, allora, contendete e guerreggiate

o fate la guerra ai vostri competitori e rivali, guerra di maldicenze, di calunnie, di atti ostili, di processi, di attacchi d'ogni genere. Un passo di Filone sul decimo comandamento è rimarchevole: «Tutte le passioni dell'anima, ei dice, sono cattive giacchè l'eccitano e l'agitano in modo contrario alla sua natura, distruggendone la sanità; ma la peggiore di tutte è la concupiscenza. I mali cagionati dall'amor del denaro, o delle donne, o della gloria, o d'altre cose che sono causa di piacere, non son nè piccoli nè ordinari. Non è egli per questa passione che sono rotti i legami del sangue... che dei paesi grandi e ben popolati sono desolati dalle discordie intestine, che terra e mare son ripieni di disastri dalle battaglie navali e terrestri». Le guerre famose combattute tra Greci e barbari ed anche fra loro stessi sono tutte scaturite da un'unica fonte: la concupiscenza o del danaro o della gloria o del piacere». E Cicerone: «Dalle cupidigie nascono odi, dissidi, discordie, sedizioni e guerre». E Platone: «Il corpo e le sue concupiscenze non dànno se non guerre, sedizioni e contese». Questi mezzi violenti non ottengono miglior risultato dell'odio e dell'invidia, anzi ingolfano viepiù l'anima nel male e nei tormenti. I cristiani avrebbero un mezzo di ottenere quei beni, anche materiali, che sono compatibili col loro bene spirituale; ma non se ne servono o ne hanno negletto l'uso, assorti come sono dalle passioni.

Non avete, perchè non domandate

dal Datore di ogni buon dono;

3 domandate, quando ancor lo fate, e non ricevete quello che chiedete nelle vostre preghiere, perchè domandate male per spendere nei vostri piaceri.

Pregate con cattive disposizioni, senza umiltà, senza spirito di perdono e di amore verso Dio e verso il prossimo, senza sottomissione alla volontà di Dio ch'è sola savia e buona, senza mirare ad un fine buono, elevato, degno di Dio; anzi, domandate per poter spendere quel che chiedete, nei vostri piaceri egoisti. Perciò Dio non può esaudire le vostre preghiere. Perfino il filosofo Seneca dava per consiglio di vivere cogli uomini come sotto gli occhi di Dio e di parlare a Dio come se gli uomini udissero, non chiedendogli nulla che non si potesse chiedere apertamente. Pregare per ottener la ricchezza, per potersi vendicare, per la riuscita di un progetto mondano, d'un intrigo ecc., è un pregare paganamente. Ma, dice Giovanni, «questa è la fiducia che abbiamo in lui: che se domandiamo qualcosa secondo la sua volontà, egli ci esaudisce».

4 O gente adultera, non sapete voi che l'amicizia del mondo è inimicizia contro Dio?

Che cosa è in ultima analisi questo "concupire" beni mondani, questo invidiare e odiare chi li possiede, questo contendere, questo pregar per avere da spendere nei piaceri, se non amore del mondo? cioè affezione per i beni del mondo, le sue ricchezze, i suoi onori, i suoi piaceri e consenso del cuore ai suoi fini, ai suoi principii, alle sue tendenze, ai suoi sentimenti, alla sua; condotta: che sono avversi a Dio ed alla sua volontà? Chiamando le cose col loro nome e mirando a destare la coscienza dei suoi fratelli, Giacomo li rende attenti alla vera situazione morale in cui vengono a trovarsi di fronte a Dio. Come cristiani, devono pur sapere che «l'amicizia per il mondo è inimicizia contro a Dio». Gesù ha detto chiaro ai suoi: «Niuno può servire a due padroni... Voi non potete servire a Dio ed a Mammona» Matteo 6:24. "Se uno ama il mondo (ch'è tutto concupiscenze), dice Giovanni, l'amor del Padre non è in lui" 1Giovanni 2:15-17. Il cuore non può nutrire in pari tempo quei due affitti opposti ed incompatibili. Il farlo costituisce un adulterio spirituale. Nell'A.T. infatti il patto stretto da Dio col suo popolo è spesso assomigliato al patto che unisce marito e moglie. Dio è chiamato il marito, la nazione eletta e prediletta, la moglie; l'abbandonare l'Eterno, per correr dietro agl'idoli, è chiamato: fornicazione e adulterio. Cristo stesso ha chiamato «generazione malvagia ed adultera» quella del suo tempo perchè infedele a Dio e incredula di fronte al suo Messia Isaia 54:5; Geremia 3:20; Ezechiele 16; Osea 9:1. Il N.T. conserva quella stessa immagine quando chiama Cristo lo sposo della Chiesa e la Chiesa la fidanzata o la sposa di Cristo Efesini 5:24-28; 2Corinzi 11:1-2; Apocalisse 19:7; 21:9. S'intende quindi che Giacomo chiami adultere le anime che, dopo aver dato il cuore a Cristo, e per lui a Dio, consacrandosi a lui, lo abbandonano per volgere i loro affetti al mondo. Il testo ordinario aveva: "Adulteri ed adultere"; il testo emendato fondato sui tre più antichi codici e sulla Siriaca, porta solo il femminile "Adultere", perchè tanto la nazione eletta, come le anime individuali sono sempre rappresentate sotto la figura della moglie. E per far meglio penetrare in ogni cuore l'avvertimento, Giacomo lo ripete in forma non più astratta, ma concreta:

Chi dunque vuol essere amico del mondo,

ossia chi vuol amare il mondo,

si rende,

per fatto stesso, si costituisce

nemico di Dio,

avverso a Dio (Cfr. Romani 8:7).

5 Il v. 5 è fra i più difficili del N.T.; non è quindi dà stupire se si contano a diecine le interpretazioni che se ne sono date, a seconda che si è punteggiato il testo, a seconda del senso diverso dato a quasi tutte le parole del versetto, ed anche a seconda dei rimaneggiamenti proposti al testo risultante dai manoscritti. L'enumerare tutte queste interpretazioni colle loro rispettive sfumature, sarebbe troppo lungo e di scarsa utilità pratica. Lasceremo subito da parte il gruppo delle interpretazioni che si fondano sopra un rimaneggiamento qualsiasi del testo. Le poche ed insignificanti varianti dei codici non ci autorizzano a ricorrere a quel mezzo estremo, e quanto mai arbitrario di risolvere le difficoltà.

Restano due gruppi principali di spiegazioni che fanno capo a sensi molto divergenti fra loro; ma per l'uno come per l'altro si presenta una questione preliminare da risolvere: la seconda parte del v. 5 è ella una citazione della Scrittura? La risposta dipende dal senso che si dà alle parole ἡ γραφη λεγει (la Scrittura dice). Se si traduce:

Ovvero, se non siete persuasi dell'incompatibilità tra l'amor di Dio e l'amor del mondo, pensate voi che la Scrittura dica invano,

cioè non parli sul serio e secondo verità, quando dice:... le parole che seguono sarebbero una citazione testuale della Scrittura. Infatti, è questa nel N.T. la formula usuale per introdurre le citazioni dell'A.T. Se non che, nell'A.T. non si trovano le parole che sarebbero qui citate. Se ne sono addotte molte (p. es. Deuteronomio 32:10,19; Numeri 11:29; Deuteronomio 5:9) che contengono un qualche accenno all'idea della supposta citazione; ma nessuna risponde ai requisiti più moderati. Si è supposto allora che la citazione sia tolta da una forma del testo greco dei Settanta a noi ignota, o da un libro apocrifo perduto; ma socio delle semplici ipotesi. Se invece si traduce: Pensate voi che la Scrittura parli invano? cioè dica invano [quel che dice], le parole che seguono rispondono bensì alle dichiarazioni della Scrittura in molti luoghi, ma non ne sono più una citazione testuale; esse appartengono all'autore dell'epistola. Abbiamo in Atti 24:10 un esempio che ci autorizza a dare al verbo λεγειν (dire) questo senso insolito più largo: «Il governatore (Felice) avendogli fatto cenno di parlare ( λεγειν cioè di dire quel che avea da dire), Paolo rispose:...» Si confr. anche Atti 13:15.

Risolta la questione preliminare, resta da determinare il senso delle parole in questione. C'è il senso della Volgata riprodotto dalla diodati. Pensate voi che la Scrittura dica invano: Lo spirito che abita in voi appetisce ad invidia? Notiamo di passata che la Volgata tradusse l'aoristo κατωκησεν (che abita), mentre significa "che abitò", "che fece la sua dimora". Il testo emendato poggiante sui codd. alef, B, A, legge κατωκισεν "fece abitare". Inoltre la Volgata seguita, non si sa perchè, dal Diodati, dice: "che abita in voi" mentre tutti i codici greci hanno in noi. A parte queste mende, l'idea contenuta in quella versione è questa: "La Scrittura afferma positivamente che lo spirito dell'uomo (il suo cuore) è pieno d'invidia, brama invidiosamente quello che non ha. La cosa è vera, ma non è affermata in nessun luogo in questa forma e non può quindi essere una citazione. Quanto alla sostanza, l'essere il cuore umano invidioso non ha che fare con quello che l'autore vuol provare, cioè che chi ama il mondo si rende nemico di Dio. Si è dato anche alle parole della presunta citazione la forma interrogativa e il senso sarebbe il seguente: "Lo Spirito santo che Dio fece abitare in noi, ispira egli dei sentimenti d'invidia? Certo che no". Manca però la particella interrogativa μη, e vale anche per questa spiegazione l'obiezione ch'essa non quadra col contesto.

L'ultimo gruppo d'interpretazioni ha indubbiamente il vantaggio di connetter meglio Giacomo 4:5) col pensiero di Giacomo 4:4). L'amor del mondo è un adulterio spirituale, è inimicizia contro Dio che è un Dio geloso. Non per nulla la Scrittura lo dichiara in tanti luoghi.

Lo Spirito ch'Egli (Dio) ha fatto abitare in noi

cioè lo Spirito santo promesso dài profeti e da Cristo e dato a tutti i fedeli del Nuovo Patto (cfr. Ezechiele 36:26-27; Giovanni 14:17; Luca 11:13)

[ci] brama per sè fino alla gelosia

e non può quindi tollerare che il cuore in cui abita sia diviso e volga il suo amore al mondo. Si ottiene la stessa idea quando si prenda come soggetto sottinteso della frase: Dio e si consideri lo spirito come indicante lo spirito umano che Dio pose nell'uomo quando lo creò: «Dio brama fino alla gelosia lo spirito ch'ei fece abitare in noi».

6 Ma dà una tanto maggior grazia.

Lo Spirito (ovvero Dio) vuol possedere interamente il nostro cuore, il suo amore santo e geloso non tollera che amiamo il mondo; ma quel suo amore profondo ci compensa largamente della privazione necessaria e salutare che ci impone, accordandoci una tanto maggior grazia: grazia per rinunziare alle seduzioni del mondo che passa, grazia per crescer nell'amor di Dio, nella fede, nella giuliva speranza dei beni veri ed eterni che Dio tiene in serbo per quelli che l'amano.

Perciò dice (lo Spirito, ovvero la Scrittura): Dio resiste ai superbi, ma agli umili dà grazia.

Perciò, perchè Dio fa abbondar la sua grazia sugli oggetti dell'amor suo, lo Spirito attesta questo nella Scrittura. La citazione è tolta dal greco della Settanta come in 1Pietro 5:5, salvochè il greco ha: il Signore. L'ebraico porta: «Se Dio schernisce gli schernitori (gl'increduli orgogliosi ed empi) egli fa grazia agli umili». I superbi son coloro che non curando Dio e la sua volontà corrono dietro alle mondane grandezze e glorie, sprezzano i piccoli, nè si adattano a portar l'obbrobrio di Cristo. A costoro Dio si oppone, Dio è avverso. Ma a coloro che sono poveri in ispirito, che riconoscono la loro indegnità e pochezza, che invece di bramare i beni e gli onori del mondo cercano di camminare umilmente per la via ch'è loro tracciata dalla Provvidenza, Dio dà grazia sempre più abbondante.

7 Sottomettetevi dunque a Dio, ma resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi.

Le esortazioni di Giacomo 4:7-10 sono la conclusione pratica dei fatti esposti nei versi precedenti. Da, una parte, lo stato morale dei lettori: guerre, invidie, amor del mondo incompatibile coll'amor di Dio; e dall'altra il fatto che Dio resiste ai superbi ma fa grazia agli umili, portano alla conseguenza che non v'è altra via di salvezza che quella dell'umiliarsi dinanzi a Dio con sincero pentimento. È questo il rimedio alle passioni che agitano i cuori e turbano le chiese. Il Cellérier seguìto da Chapuis distingue quattro gradi successivi nella via del pentimento al quale Giacomo chiama i suoi fratelli, e il primo è la risoluzione ferma di prender per norma unica della vita la volontà di Dio, sottomettendosi a lui e resistendo energicamente al suo e nostro nemico il diavolo. Non v'è dubbio che Giacomo, come del resto tutta la Scrittura, dalla Genesi all'Apocalisse, considera il diavolo come un essere personale, opposto a Dio ed attivo nel tentare, nello spingere al male gli uomini. L'uomo ha, però il potere di resistere alle sue seduzioni e quando si trova, come nel caso di Gesù, di fronte a una volontà decisa, il diavolo fugge come un nemico vinto.

8 Appressatevi a Dio

col cuore, coll'aspirazione alla comunione con lui, colla preghiera umile e fidente, come a Colui che solo può dar perdono, pace, forza e vera felicità,

ed egli si appresserà a voi

poichè, come il padre del figliuol prodigo, egli non aspetta che il ritorno del figlio pentito per corrergli incontro e colmarlo delle sue grazie (Cfr. Isaia 57:15-16; Zaccaria 1:3). Alla risoluzione di tornare a Dio con tutto il cuore deve seguire l'abbandono del male negli atti e nei sentimenti.

Nettate le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d'animo!

Il nettar le mani che sono gli strumenti dell'azione, significa il rinunziare a tutti quegli atti che, essendo peccaminosi, contaminano l'uomo creato per la santità (Cfr. Isaia 1:15-17). E poichè la fonte della condotta esterna sta nel cuore, esso dev'esser purificato da ogni affetto impuro, dall'amore ai piaceri e alle vanità del mondo che prendono il posto al quale Dio solo ha diritto Salmi 24:4. "Doppi d'animo" (cfr. Giacomo 1:8), equivale al "gente adultera" di Giacomo 4:4. Gli stessi uomini sono chiamati "peccatori" quanto alla vita esterna e "doppi d'animo" quanto alla lor vita interiore.

9 Il terzo elemento del pentimento verace è il dolore sincero e profondo che uno prova al pensiero dei peccati commessi.

Siate afflitti e fate cordoglio e piangete!

Il primo di questi verbi non s'incontra altrove nel N.T., ma abbiamo l'aggettivo alla fine della descrizione drammatica della lotta interna tra il bene ed il male in Romani 7:24: "Misero me uomo!" Le versioni francesi hanno: "Sentite la vostra miseria!" Il rimorso della vita nel peccato deve rendere infelici. Il far cordoglio s'intende non del vestire a lutto o del prendere i segni esterni del lutto, ma dell'interno dolore. Degli Israeliti, allorchè si convertiranno al Cristo, è detto che «riguarderanno. a colui ch'essi hanno trafitto, e ne faran cordoglio come lo si fa per un figliuolo unico, ne piangeranno amaramente come ai piange per un figlio primogenito» Zaccaria 12:10-14.

Sia il vostro riso convertito in lutto e la vostra allegrezza in mestizia!

Si tratta dell'allegrezza spensierata ch'essi trovavano nei piaceri malsani, nei godimenti colpevoli e fugaci che il mondo dava loro. L'ultima parola, implica dolore e vergogna perchè vale propriamente l'abbassar gli occhi. Del pubblicano pentito Gesù dice che: "stando da lungi, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo, ma si batteva il petto..." Luca 18:13. (Cfr. Ezechiele 36:31-32; Romani 6:21). L'esortazione di Giacomo ricorda le parole di Cristo in Luca 6:25: «Guai a voi che ora ridete perchè farete cordoglio e piangerete».

10 Ultimo tratto nel quadro del pentimento: l'umiliazione innanzi a Dio:

Umiliatevi nel cospetto del Signore, cioè di Dio, ed Egli vi innalzerà.

Il dolore potrebbe essere quella che Paolo chiama la tristezza del mondo, tristezza prodotta dalle delusioni e dagli amari frutti del peccato; ma se va unita all'umiliazione del cuore davanti a Dio la cui legge è stata violata, il cui amore è stato sprezzato, i cui inviti sono stati trascurati, essa è quella «tristezza secondo Dio, che produce un ravvedimento a salvezza e del quale non c'è mai da pentirsi» 2Corinzi 7:10. (Cfr. Salmi 51). Il pubblicano si umilia davanti a Dio e prega: "O Dio sii placato inverso me peccatore!" E Gesù dichiara che "se ne tornò a casa giustificato... perchè chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato". Facendo eco a quella parola, Giacomo dice: "Umiliatevi... ed Egli vi innalzerà"; vi innalzerà rialzandovi dal vostro abbassamento col darvi il suo perdono, coll'adottarvi come, suoi figli, coll'arricchirvi fin da or a delle sue grazie, e col farvi eredi della gloria del suo regno.

11 Non parlate gli uni contro gli altri, fratelli.

Giacomo ha denunziato le passioni mondane: la concupiscenza, l'invidia, l'odio, come fonte di guerre ed ha indicato come rimedio l'umiliazione dinanzi a Dio. Egli termina il § con una esortazione a guardarsi dalla maldicenza ch'è indizio ad un tempo d'orgoglio e di mancanza di quell'amore ch'è la gran legge della vita cristiana. Non c'è ragione per credere che l'esortazione sia rivolta specialmente ai dottori o ad una categoria speciale di fedeli; è rivolta a tutti i fratelli ed è facile capire che in un ambiente di invidie, di contese, di ambizioni, non mancassero le maldicenze: La legge di Mosè proibiva la maldicenza: "Non andrai qua è là facendo il diffamatore fra il tuo popolo" Levitico 19:16. Pietro esorta i cristiani a gettar lungi da loro ogni malizia... e ogni sorta di maldicenze 1Pietro 2:1. (Cfr. Romani 1:30; 2Corinzi 12:20). La maldicenza non si spinge necessariamente sino alla calunnia, ma implica un giudizio temerario, spietato e per Io più ingiusto degli atti, delle parole e delle intenzioni del fratello; una più o meno inconsapevole intenzione di abbassarlo, sparlandone, per esaltar noi stessi; una usurpazione dei diritti di Dio.

Chi parla contro un fratello o giudica il suo fratello, parla contro la legge e giudica la legge.

La duplice menzione del fratello come oggetto dell'orgoglioso giudicio e della maldicenza di chi è unito a lui dai legami più stretti, fa risaltare la gravità e l'odiosità del peccato che lo scrittore combatte. Sul giudicare il prossimo, cfr. Matteo 7:1; Luca 6:37; Romani 14:1-13. La legge di cui parla Giacomo è la legge dell'amore del prossimo, ch'egli ha chiamato la legge regale Giacomo 2:8 e che abbraccia tutti i doveri verso i fratelli. Ora chi parla contro il fratello e lo giudica, trasgredisce quella legge; si erge contro di essa, si arroga il diritto di piegarla al suo volere, di sospenderla o di abrogarla a sito beneplacito, quasichè la legge non fosse giusta e santa e buona.

Ora se tu giudichi la legge non sei un osservatore (letteralmente facitore) della legge, ma un giudice.

Chi si arroga il diritto di giudicar la legge assume una posizione di superiorità di fronte ad essa. Un tale atteggiamento non si addice all'uomo ch'è una semplice creatura alla quale Dio ha dato una legge perchè l'osservasse, non perchè la criticasse o la mettesse da parte. Nell'antichità il giudice era anche il legislatore; il re ad es. promulgava ed applicava la legge. Ora l'uomo che assume l'atteggiamento d'un giudice esce dalla posizione che Dio gli ha assegnata. Egli non ha nè la competenza nè l'autorità del giudice.

12 Uno solo è legislatore e giudice,

cioè Dio autore della legge della coscienza e della legge rivelata dell'Antico e del Nuovo Patto; Dio ch'è il supremo e solo infallibile Giudice di tutte le creature morali; Dio ch'è

Colui che può salvare e perdere,

che dopo aver pronunziato il giudizio, ha la potenza di eseguirlo, sia che si tratti della salvezza, sia che si tratti della perdizione. Gesù in Matteo 10:28 dice: "Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccider l'anima; temete piuttosto colui che può far perire e l'anima e il corpo nella geenna".

Ma tu chi sei

in fatto di conoscenza, in fatto di santità, in fatto di autorità e di potenza,

che giudichi il tuo prossimo?

Il testo ordinario del v. 12 leggeva: altrui invece di "prossimo", ometteva il "ma tu chi sei..." ed anche le parole e giudice, con pochi codici posteriori.

AMMAESTRAMENTI

1. Donde vengon le guerre e le contese fra i cristiani? Esistevano nelle comunità giudeo-cristiane, ai tempi di Giacomo, e la storia attesta che sono esistite sempre di poi nella Chiesa fino ad oggi. Contese fra i credenti provenienti dal giudaismo, proclivi ad imporre le loro pratiche speciali, e i credenti etnici gelosi della loro libertà cristiana; contese fra i partiti aventi per bandiera il nome d'un uomo: Paolo, Apollo, Cefa; contese per dissensi dottrinali, per dispareri in questioni morali; contese connesse con l'organizzazione ecclesiastica, sette, scismi, e poi anatemi e persecuzioni e guerre dette di religione e guerre mondiali promosse e sostenute da popoli che portano il nome del Principe della pace, la cui legge si riassume nell'amore. Donde vengono.

Per quanto concerne le società civili, se ne fa spesso risalire la causa alle costituzioni, alle leggi, all'organizzazione economica. Senza negare la parte di verità che vi può essere in questo, è certo che se anche si riformassero ab imis fundamentis leggi e ordinamenti sociali, non perciò cesserebbero le guerre fra gli uomini; com'è certo del pari che non sono le costituzioni ed i regolamenti ecclesiastici la causa delle contese in seno alle chiese. La causa è più profonda: essa sta nel cuore stesso dell'uomo, nelle sue passioni non domate. Ivi sta la fonte delle contese fra gli individui, fra le famiglie, fra i villaggi, fra le chiese, fra le classi della società, fra i popoli. La pace fra gli uomini è conseguenza della pace negli uomini. Ma dove si agitano le passioni nei cuori, esse tengono agitate e turbate le società umane: passione del possedere sempre più, passione del dominar sugli altri, passione della gloria e degli onori mondani, passione dei godimenti grossolani o raffinati, invidie, odii, rancori, guerre sorde, guerre aperte.

Chi ricondurrà la calma su quel mare in tempesta? Non le riforme esterne anche rivoluzionarie; ma il profondo rinnovamento interno dell'uomo che la Scrittura chiama una "nuova nascita", una "palingenesi". Tra cristiani e in seno alle chiese, cesseranno le contese a misura che sarà più sincero il pentimento, più profondo l'amore per Dio, più stretta l'unione col Cristo, più reale la sottomissione alla volontà di Dio. E quando i popoli brameranno d'essere ammaestrati nelle vie del Signore per camminar nei suoi sentieri, allora verrà il giorno in cui le armi della guerra saranno trasformate in istrumenti di pace... Isaia 2:1-5.

2. "Voi bramate e non avete... non potete ottenere... non ricevete". Ecco, nota il Chapuis, il malessere interno, lo scontento, il vuoto che la passione, tosto o tardi, produce. Ov'è l'uomo che la sua passione non abbia deluso amaramente? E perchè? Perchè le passioni ci allontanano da Dio e quindi dalla felicità di cui Egli è la sorgente.

La passione porta ad usare mezzi immorali, colpevoli. Si preferisce diventar ricchi, dice Calvino, sotto la guida del diavolo anzichè per la grazia di Dio. E questo dà dei frutti amari. La passione, anche una sola, caccia dal cuore quel che ne costituisce la pace e la dignità. Poi il cuore è insaziabile. Dategli il mondo, ne vorrà degli altri. Infine, la passione è fonte di delusione perchè s'immagina che la felicità sia nelle cose del inondo, sopratutto nei godimenti materiali, mentr'essa non'è in ciò ch'è materiale e terreno.

3. "Anime adultere", "gente dalle due anime"! L'apostrofe severa è rivolta a quelli che sogliono unire l'amor del mondo e l'amor di Dio, che sono incompatibili. Il cristiano è chiamato bensì a vivere nel inondo, ma non dev'esser "del mondo", perchè il mondo è nemico di Dio. I suoi principi, le sue direttive, le sue aspirazioni, le sue gioie, non possono esser quelli del cristiano che ha per norma di vita la volontà di Dio e per movente supremo l'amore per lui. Quando pensiamo a quel che Dio ha fatto per noi, al dono del suo Figliuolo, all'amore col quale ci ha cercati ed attratti a sè malgrado le nostre ripulse ed indecisioni, al fango del quale ci ha lavati, ai privilegi di cui ci ha fatti partecipi, alla longanimità con cui ci ha sopportati, all'opera dello Spirito che con amor geloso ci vuole tutti interi per Dio, alla grazia ch'Egli è disposto a spargere largamente su chi l'invoca con umiltà, non possiamo a meno di sentire quanto sia odiosa l'ingratitudine d'un cuore diviso tra Dio ed il mondo, d'un cuore che dimentica i benefizi ricevuti e rinnega gli slanci del primo amore insieme colle più solenni sue promesse.

4. Sia che si tratti del peccatore che per la prima volta si converte a Dio, sia che si tratti del cristiano che si è lasciato sedurre dal mondo, e ritorna sulla buona strada, il pentimento verace consisterà sempre nel sottomettersi a Dio come al nostro unico Signore e Re, nel purificarci mani e cuori dal male, nel piangere sulle nostre colpe e nell'umiliarci innanzi a Dio.

5. San Giacomo afferma l'esistenza e l'attività del diavolo come afferma quella dei demoni Giacomo 2:19. Nelle tradizioni religiose di quasi tutti i popoli s'incontra, sotto forme diverse, la credenza positiva agli angeli ribelli ed a Satana. È un fatto che gli uomini più perversi, cercano di trascinar nel male i loro simili. V'è egli qualcosa di strano nell'ammettere che altri esseri, all'infuori dell'uomo, siano dotati di libertà e ne possano fare un cattivo uso e cerchino di sedurre altri esseri? L'immensità dell'universo e la infinita varietà degli esseri che popolano un granel di sabbia qual'è la nostra terra, ci portano quasi necessariamente ad ammettere l'esistenza d'una infinità di esseri nei mondi che popolano lo spazio.

La Bibbia d'altronde afferma l'attività del diavolo. Tentò il primo Adamo e vinse; tenta il secondo Adamo e fu vinto; resistendogli con salda volontà e coll'aiuto di Colui che lo vinse, e che ci arma dell'armatura di Dio Efesini 6 avremo anche noi la vittoria.

6. Il peccato della maldicenza riveste le forme più diverse le quali non sono in realtà che dei pretesti intesi a nascondere la malvagità della sostanza; ora sarà la forma d'una virtuosa indegnazione. "Non si può lasciar passare cose siffatte senza stimmatizzarle"! Ovvero sarà la forma della compassione: si narrano con finto dolore i peccati del prossimo tanto infelice da avere un tal carattere! O sarà sotto forma d'avvertimento: Vi dico questo del tale, nel vostro interesse, perchè stiate in guardia. Talvolta la maldicenza sarà foderata d'elogi: Peccato! un uomo così eccellente, così pieno di doti! ma che volete, nessuno è perfetto! La forma più astuta è forse quella dell'incredulità: Io stento a crederlo, tanto la gente è cattiva. Ma intanto quella cosa a cui non si crede la si racconta, fors'anche aggiungendovi le frangie. Perfino il silenzio serve alla maldicenza: Preferisco tacere; non voglio nuocere ad alcuno!

La maldicenza si attacca a tutto: agli atti, alle parole, ai gesti, ai pensieri, perfino alle intenzioni; a quel che si fa e a quel che non si fa, alle mancanze più lievi e alle colpe gravi.

Essa è universale. Si suol dire che la maldicenza è il peccato di quelli che non ne hanno altri. Le anime pie non ne sono esenti e devono vegliar sulle parole e sui giudizi che pronunziano. Sant'Ambrogio di Milano aveva fatto col suo fratello il patto che tutto fra loro sarebbe comune; ma che non direbbero mai l'uno all'altro nè ad estranei, quello che avessero appreso di male circa il prossimo. E il patto ambedue l'osservarono.

Le sue conseguenze possono essere funeste e ad ogni modo essa è indizio di cattivi sentimenti. Essa nuoce a colui che chiamiamo nostro fratello, anche se appartiene ad un'altra chiesa o ad un altro ceto sociale. Più che questo, essa è un ergersi orgogliosamente al disopra della legge di Dio che si trasgredisce apertamente nell'atto stesso che la si applica ai fratelli per giudicarli. "Ipocrita, disse il Cristo, trai prima dall'occhio tuo la trave, e allora ci vedrai bene per trarre il bruscolo dall'occhio del tuo fratello" Matteo 7:1-5, "Tu chi sei che giudichi il fratello", usurpando il posto del solo Legislatore e Giudice davanti al quale dovrai fra breve comparire.

13 §7. Giacomo 4:13-17. I PIANI PRESUNTUOSI

Per quanto breve, questo § mira ad eliminare dalla vita dei lettori dell'epistola un'altra, manifestazione dello stato religioso deplorevole in cui si trovavano. Uditori e non facitori, proclivi ai riguardi personali, uomini dalla fede morta, aventi l'ambizione d'insegnare gli altri senza esser dotati della sapienza che vien dall'alto, in contesa fra loro perchè amano il mondo anzichè Dio, essi dimostrano quanto poco posto tenga Iddio nei loro cuori dal modo prosuntuoso e temerario col quale dispongono dell'avvenire nei piani che fanno.

Ed ora a voi che dite: Oggi o domani andremo nella tal città e vi staremo un anno, e trafficheremo e guadagneremo.

Il tono dell'autore diventa, più severo quando ha che fare con gente orgogliosa e assorta unicamente dalla passione del guadagno. Si volge bruscamente a loro, con un: Orsù voi che dite e lo fa per svegliare la loro coscienza e chiamarli, se possibile, a riflettere. Essi paiono essere i padroni della loro vita e dell'avvenire, a sentirli. Fissano il giorno della partenza per una data città, fissano il tempo della loro permanenza in essa, determinano quale sarà la loro attività durante quel tempo, e ne anticipano il felice successo; e tutto questo senza un pensiero per Dio, come se egli non esistesse, senza tener conto dell'esperienza quotidiana che ci avverte dell'incertezza della nostra vita e dell'avvenire. Sono così avidi di guadagno e così orgogliosi, che il loro cuore non accoglie il pensiero della dipendenza in cui le creature sono da Dio e il pensiero dell'avvenire ultra terrestre. Giacomo sceglie come tipo di quelli che fanno dei piani senza Dio, il mercante ambulante che, va di città in città per il suo commercio; tipo che doveva esser fin d'allora frequente fra i Giudei specialmente fuori di Palestina. Se invece di leggere con i codd. B e alef: "oggi o domani", si leggesse coi codd. A, K, L, P: "Oggi e domani" le parole andrebbero riferite non alla data della partenza, ma alla durata del viaggio progettato.

14 mentre non sapete quel che avverrà domani!

Il libro dei Proverbi avverte: «Non ti vantare del domani perchè non sai quel che un giorno possa produrre» Proverbi 27:1. E Gesù, dopo aver descritto i piani egoistici del ricco stolto, aggiunge: "Ma Dio gli disse: Stolto! questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata..." Luca 12:20. Gli scrittori pagani descrivono in molti modi l'incertezza della vita umana: "Niuno conosce quel che succederà in capo a un giorno, in capo a un'ora. La fine dei mortali è impreveduta ed è nascosto l'avvenire". "Quanto è stolto, esclama Seneca, il disporre della vita, quando non si è padroni neppure del giorno di domani!"

Che cos'è la vita vostra? Poichè siete un vapore che appare per poco tempo e poi svanisce.

Una parte dei manoscritti porta: "Che cos'è infatti la vita vostra?" I maggiori critici si attengono al testo più breve. Abbondano nella Scrittura le similitudini tratte dalle cose più tenui e di minor durata per rappresentar la fragilità e la brevità della vita. Il farci sopra dei piani a lunga scadenza, con una sicurezza carnale, è stoltezza.

15 Invece di dire: Se piace al Signore, saremo in vita e faremo questo o quest'altro.

Anche qui i manoscritti si dividono e i meno antichi leggono: "Se piace al Signore e che noi viviamo ( ζησωμεν) faremo...". La lezione dei codici più antichi (B, alef, A, P) ha due futuri preceduti ciascuno da un e ( και): "avremo e vita e facoltà di fare". Tanto la vita quanto l'attività dell'uomo dipendono dal volere di Dio. Nel paganesimo eran molte le formule usate per indicar la dipendenza dell'uomo dalla divinità. Es. "Se Dio vuole", "se vogliono gli dei", "deo volente", "si deus dederit", "si diis placet". I maomettani usano inshallah "se Dio vuole". Paolo, sul punto di lasciare Efeso dopo la sua prima visita, dice ai Giudei: "Tornerò di nuovo da voi, se Dio vuole"; e in 1Corinzi 4:19 si esprime così: "Verrò presto da voi, se il Signore lo vuole...". (Cfr. Ebrei 6:3). Lo esprima nelle parole o lo pensi in cuor suo, il cristiano vive nel sentimento costante della sua dipendenza da Dio.

16 Ma ora vi vantate nelle vostre millanterie. Ogni cotal vanto è cattivo.

Così come stanno le cose, coloro a cui si rivolge il fratello del Signore, sono lungi dall'avere una tale disposizione; anzi, dal modo in cui parlano dei loro piani, scontando l'avvenire, con carnale sicurezza da millantatori, si vede che sono fieri delle loro forze e contano su se stessi come se fossero padroni delle circostanze e della loro vita, come se Dio fosse assente. Un tale vanto è cattivo perchè orgoglioso e perfino empio.

17 Colui dunque che sa fare il bene e non lo fa, commette peccato.

A prima vista, non si scorge bene il nesso di queste parole con quel che precede e come ne possano esser la conclusione (dunque). Esse costituiscono un avvertimento finale a coloro che non potevano, come cristiani, ignorare quel che perfino i pagani sapevano, cioè che l'uomo è dipendente da Dio per la sua vita e per il prospero successo delle sue imprese. Ma accecati dall'orgoglio e dall'avidità di guadagno, essi parlavano ed agivano come se ignorassero la sovranità di Dio. Giacomo ricorda loro che la conoscenza crea una maggior responsabilità e che il trascurare di fare quel che si sa esser bene costituisce un peccato. Ora ch'egli ha loro ricordato la via da seguire, saranno tanto più colpevoli se continueranno nel loro andazzo. (Cfr. Giovanni 9:41; Matteo 23:3).

AMMAESTRAMENTI

1. Il far dei piani è egli un male? Non è egli una necessità, ed anche un dovere? Ci vuole un programma nella vita. L'industriale, l'agricoltore, il commerciante, il padre di famiglia devono veder chiara la loro strada, formare i loro piani, determinare il loro compito, e il modo migliore di impiegare il loro tempo e le loro forze. La previdenza è una virtù preziosa. Gli apostoli non formavano essi il piano dei loro viaggi missionari? Gesù stesso non ebbe egli un programma per la sua attività? Tutto questo è vero; ma San Giacomo non proibisce di fare dei piani, ma di farli con spirito mondano di prosunzione, di vanità; di fiducia cieca in noi medesimi, tenendo Dio all'infuori dei, nostri progetti. Una vita dalla quale Dio è assente è una vita empia. Quando Gesù disse: «Non siate con ansietà solleciti per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete...» Matteo 6:25, egli non volle condannare la previdenza, ma la previdenza senza fede, i progetti senza Dio, perchè la previdenza senza fede o cade nelle ansietà tormentose e negli scoramenti disperati, o diventa sicurezza orgogliosa, fiducia carnale e millantatrice. Fa' dunque i tuoi piani, calcola, combina, adopera la tua intelligenza e il tuo buon senso; ma falli sotto lo sguardo di Dio e col desiderio di glorificarlo, ricordando la tua pochezza e la tua dipendenza: Falli, ma se Dio te li corregge e modifica od anche se li distrugge, ricordati ch'Egli è sovrano e che la sua sapienza è infinita. Fa' i tuoi piani, ma non dimenticare che di ogni cosa sarai chiamato a render conto.

2. È evidente per chi riflette che Giacomo, quando consiglia di fare la riserva: «Se Dio vuole», non intende raccomandare una formula da intercalare nei nostri discorsi. È invalso anche troppo fra i cristiani l'uso di certe formule pie che per l'abitudine son diventate vuote di senso per chi le pronunzia e per chi le sente. Giacomo intende inculcare dei sentimenti, fortificare delle convinzioni nelle anime. Pronunzino o tacciano le formule, vuole ch'essi vivano colla coscienza che Dio è il loro Padrone, che da lui dipendono per la loro vita, per la loro attività e pel risultato di essa. «Senza di lui, e a fortiori contro di lui, non potete nulla e non avete nulla, neanche un giorno di prosperità, una notte di riposo, un pezzo di pane. L'industria, il commercio, la politica, il benessere generale e particolare, tutto dipende da circostanze che voi non dirigete. Tutto è in Dio; egli abbassa ed innalza. L'uomo propone e Dio dispone. L'uomo si agita e Dio lo mena» (Chapuis).

 

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