SE AVESSI UN PASTORE di Roberto Bracco

INTRODUZIONE
Nella mia posizione di pastore non sempre mi è facile esporre quegli insegnamenti contenuti nelle Scritture, che esortano ad avere amore e stima per i conduttori o che raccomandano la sottomissione, l’ubbidienza e l’affetto a coloro che si affaticano nel servizio del Signore. Queste lezioni sulle mie labbra, come d'altronde sulle labbra di qualunque pastore, sembrano spesso e sembrano a molti apologie interessate e vengono ascoltate, come si ascolta l’esposizione di una tesi, che deve servire soltanto per difendere o dar lustro a colui che la espone.
Nonostante le difficoltà, naturalmente, non mi sottraggo dal presentare “tutto il consiglio di Dio al popolo” e non soltanto per il desiderio di essere fedele nel ministerio ricevuto, ma anche per procacciare il bene di ogni figlio di Dio.
lo so, perché la Scrittura lo dice e l’esperienza lo conferma, che l’amore, la stima e la sottomissione, che si offrono ai conduttori, si traducono in una benedizione per tutti coloro che godono il frutto del servizio cristiano.
I conduttori, infatti, sono gli strumenti usati da Dio per l’edificazione della chiesa e nell'opera del ministerio possono essere assomigliati ai canali attraverso i quali fluisce copiosa e ristoratrice la benedizione di Dio per la Chiesa. L’efficacia di questi strumenti è in parte condizionata dalla posizione del popolo di Dio che può, di fronte ad essi, assumere posizioni positive o negative: se i conduttori vengono costretti a compiere il loro servizio con sospiri e lacrime, il ministerio è mortificato; se invece possono assolverlo gioiosamente nel seno di una chiesa fedele, il ministerio è esaltato.
Qualcuno ha detto: “La comunità influisce sull'opera del ministerio più di quanto il ministerio non influisca sulla comunità”. Quest’affermazione ci vuol semplicemente dire che i credenti possono fare per il conduttore anche più di quello che il conduttore fa per loro; il vantaggio naturalmente è sempre da parte della chiesa, che può compiere l’opera nell'unione di molti verso uno, per poi godere il servizio di uno a favore di molti. Per compiere il proprio dovere cristiano a favore dei conduttori, particolarmente a favore del pastore, è sempre necessario ricordare che egli ha bisogno di aiuto, conforto ed incoraggiamento al pari degli altri. Non esistono pastori perfetti ed infallibili, perché la perfezione è il traguardo finale di ognuno e l’infallibilità è un attributo, che appartiene soltanto a Dio.
L’Apostolo Giacomo, austero conduttore dei giorni apostolici, scriveva ai credenti del secolo d’oro del cristianesimo: “…diletti, TUTTI FALLIAMO intorno a molte cose…“. Egli non si estraniava da quella condizione universale di fallibilità e benché rivendicasse con sacra autorità la propria posizione di servitore di Dio (Giacomo1:1), riconosceva anche la propria condizione di debolezza e di imperfezione. Appunto, perché debole ed imperfetto, il conduttore conosce, oltre che le tentazioni comuni a tutti gli altri che vivono nella carne, anche gli scoraggiamenti, la stanchezza, la perplessità, lo sconforto. Forse è utile ricordare che gli attacchi nemici si concentrano con particolare intensità e violenza verso quello che può essere definito lo “stato maggiore” della chiesa: pastori, missionari, predicatori, evangelisti hanno sempre conosciuto concentrazioni massicce di potenze infernali sferrate contro la loro vita e il loro ministerio.
Spesso nel servizio di Dio le mani “si appesantiscono e si stancano”; quante lacrime, quanti sospiri, quante preghiere angosciose gonfiano il petto dei conduttori, mentre il “carico dell’Eterno” pesa sopra di loro. Coloro che vegliano per le anime, affidate al loro servizio, frequentemente, vegliano anche per le preoccupazioni, per i dolori, per le provocazioni, per l‘insensibilità, che raccolgono in mezzo al popolo e allora quelle notti “bianche” diventano una parola tentatrice, che cerca di insinuare lo scoraggiamento, la defezione, forse la ribellione.
Se ogni credente si rendesse conto di questa realtà, cercherebbe per il bene del proprio pastore, per il bene della chiesa e per il proprio bene di “dare” a colui che lo ammaestra e che veglia per lui, tutto quello che potrebbe sollevare le sue mani, onde rendergli sereno il servizio, lieto il cammino, gioiosa la comunione.
Le “mani alzate” saranno sempre la vittoria della chiesa cristiana e quindi l’allegrezza in comune del ministro, che assolve il servizio e dei fedeli che, nella collaborazione affettuosa, sorreggono le sue braccia.
Il pastore, è stato detto, è l’unico membro di chiesa che “non ha pastore”; non può godere l’assistenza, che altri godono, e non può contare sull'aiuto, che altri reclamano. Questo è vero, almeno dal punto di vista umano, ma, nonostante io non abbia pastore, nulla e nessuno mi impedisce d’immaginare quel che farei o piuttosto, che vorrei fare se avessi un pastore.
Ecco quel che vorrei fare in maniera pratica e concreta per il mio pastore:

ESSERE ASSIDUO ALLE RIUNIONI DI CULTO
Non vorrei mai mancare a quello che, oltre ad essere un appuntamento con Dio è anche un appuntamento col pastore; io so che un servo di Dio non manca mai alle riunioni ed io vorrei dargli sempre la consolazione della mia presenza.
Quando un pastore sale sul pulpito, conclude con quest’atto solenne l’attesa ansiosa che lo ha tenuto in preghiera davanti a Dio nel corso della giornata; egli ha chiesto ispirazione, guida, luce, potenza; ha domandato quel cibo che viene dal cielo e che serve per i bisogni del popolo. Trovarsi poi, più o meno inaspettatamente, davanti ad una sala grigia e di fronte a dei banchi vuoti rappresenta la circostanza più deprimente, che si possa presentare a colui che ha onestamente cercato dì "apparecchiare un convito", ma non vede giungere gli invitati.
Se avessi un pastore, vorrei, anche per essere d’incoraggiamento al suo ministerio, mettere il Regno dei Cieli avanti ad ogni cosa e quindi, nel giorno e nell'ora designati per le riunioni, procaccerei di dimenticare tutte le mie preoccupazioni profane o sociali e vorrei anche superare tutte le difficoltà ordinarie o straordinarie, per essere nella "casa di Dio" assieme al servo del Signore.
Molti cristiani riservano alle riunioni di culto solo il tempo libero delle belle giornate, quando non hanno nulla da fare e il cielo è sereno, sono pronti a trascorrere un’ora di "distrazione" nella comune radunanza, ma quando hanno impegni sociali, affari materiali o forse un piccolo raffreddore, oppure quando il vento soffia e la pioggia scroscia, dimenticano facilmente che il bene dell’anima e le realtà dello Spirito dovrebbero essere poste sopra ogni altra cosa. Questi cristiani a metà danneggiano la loro vita, ma di riflesso turbano ed ostacolano il ministerio, perché un pastore, che è costretto ad esercitare il suo servizio nel mezzo della defezione generale, non può non avvilirsi nell'espletamento del proprio compito.
Non è vero che l’assenza passa inosservata e non è vero, come pensano alcuni, che il pastore non si accorge che alcuni mancano, perché non soltanto i vuoti desolanti rappresentano una dura ed eloquente testimonianza, ma anche il silenzio che segue all'appello, che il pastore fa immancabilmente nell'intimo del proprio cuore, costituisce una denuncia per una chiesa indifferente. Il servo di Dio pensa a tutti gli assenti, passa in rassegna la loro vita e scandisce dentro di se i loro nomi. Quando questi nomi aumentano ed aumentano di numero, il cuore del ministro ne avverte il peso opprimente e si scoraggia.
Io vorrei, perciò, trovarmi sempre al mio posto e, sopratutto, non vorrei mancare alle riunioni, che più facilmente possono essere disertate dalla massa: mi riferisco particolarmente alle riunioni di preghiera, dove vorrei essere al fianco del mio pastore, perché potesse vedere che altri sentono con lui il bisogno di cercare l’assistenza divina e perché potesse essere consolato nel constatare che non tutti hanno lasciato cadere l’esortazione rivolta dal pulpito di raccogliersi e stringersi davanti a Dio.
Un pastore onesto, realmente desideroso della prosperità della chiesa, non manca di volgere un costante appello al popolo per l’esercizio della preghiera. In tempo di crisi quest’appello è sistematicamente ignorato, ma le diserzioni non ricadono soltanto sopra i cristiani, che le consumano, anzi, anche sopra il pastore, che deve assistere col pianto nel cuore allo spettacolo dell’indifferenza e dell’insensibilità di un popolo, che non sa più rispondere all'esortazione affettuosa, che è poi l’esortazione misericordiosa di Dio.

ESSERE ATTENTO E RIVERENTE DAVANTI AL SIGNORE.
Un pastore può essere ispirato soltanto da un popolo, che accede alla casa di Dio con timore e che rimane nella presenza del Signore con riverenza ed attenzione. Coloro che si presentano per essere loro stessi "uno spettacolo" e che vengono con i molteplici e multiformi elementi di vanità femminile o maschile, per ostentare la loro eleganza o per rivaleggiare sul piano della moda o della bellezza, non possono che turbare il pastore al pari, d'altronde, di coloro i quali durante lo svolgimento della riunione mostrano di annoiarsi, di aver fretta o di non interessarsi affatto.
Io vorrei essere un’ispirazione per il mio pastore e non soltanto "andando nella casa di Dio" adorno di verecondia e modestia e, più ancora, di sincerità ed umiltà, ma anche rimanendo nella presenza del Signore con riverenza ed attenzione. Non vorrei inchinarmi continuamente all'orecchio del mio vicino per parlare e neanche vorrei porgere la mia attenzione ai commenti del fratello alla mia destra o alla mia sinistra; non vorrei voltarmi indietro e non vorrei consultare continuamente il mio orologio; non vorrei ciondolare il mio capo e abbassare le mie palpebre e non vorrei sventagliarmi rumorosamente o vivacemente tergermi il sudore.
Se avessi un pastore, vorrei pendere dalle sue labbra e interessarmi delle sue esortazioni, dei suoi avvertimenti e del suo messaggio; vorrei volgere gli occhi verso di lui e palesare apertamente il mio assenso, affinché egli potesse vedere e "sentire" che l’opera del ministerio non è vana, ma è seguita ed apprezzata dai fedeli.
Sono certo che la mia attenzione riverente e sincera assieme alla preghiera, che vorrei formulare dall’intimo del mio cuore, darebbe forza spirituale al messaggio del mio pastore, perché tutti i servitori di Dio trovano vigore nell’attenzione profonda di coloro che ascoltano la parola.

ESSERE UBBIDIENTE AGLI INSEGNAMENTI O ALLE ESORTAZIONI
"Ubbidite ai vostri conduttori..." è un ordine dato dalla Scrittura per il bene dei credenti, ma anche per la consolazione di coloro che si affaticano nel campo di Dio. Come un padre trova sollievo ed incoraggiamento nella sottomissione affettuosa dei propri figliuoli, cosi un pastore trova Iena nell'ubbidienza di un popolo, che non soltanto è pronto ad ascoltare, ma anche a praticare l’insegnamento, che è dato nel nome del Signore.
Io vorrei trovarmi in prima fila nell'ubbidire al mio pastore, lontano da coloro che si dilettano a gettare gli insegnamenti dietro le proprie spalle o da coloro che provano il gusto malefico di fare esattamente l’opposto di quanto viene loro raccomandato. Le parole del servo di Dio sono le parole stesse di Dio (I Timoteo 2:13) ed io vorrei raccoglierle umilmente e fare di esse la regola della mia vita di cristiano.
Potrebbero, forse, essere parole dure, severe, dolorose, ma io non vorrei neanche pensare che il mio pastore potesse predicare per il diletto di colpire o di distruggere e, quindi, vorrei ripetere col Salmista: "... pestimi pure il giusto e ciò mi sarà benignità, riprendami egli e ciò mi sarà come olio eccellente".
Vorrei essere ubbidiente anche nelle particolari esortazioni e nelle raccomandazioni di circostanza, che il pastore fosse costretto ad esprimere. La vita di una comunità è sempre molto complessa e non mancano mai cose, che devono essere fatte o circostanze ordinarie e straordinarie, che devono essere affrontate. Il pastore deve cercare le soluzioni e, in questa ricerca, deve esprimere esortazioni, fare raccomandazioni o volgere appelli.
Io vorrei prestare affettuosa attenzione alle parole del mio pastore ed essere pronto ad assecondare il suo sforzo sottomettendo la mia vita alle sue parole. Sono sicuro che questo sarebbe un valido contributo per il raggiungimento di quell'ordine e di quell'equilibrio che sono auspicabili per ogni comunità. È triste, infatti, lo spettacolo di quelle chiese aggravate perennemente da disordini insanabili o da perniciose situazioni croniche, oppure di quelle chiese rese sterili da servizi incompiuti o da attività trascurate e tutto questo, perché i membri di esse non si curano di ascoltare e seguire le esortazioni dei conduttori.
Se tutti riconoscessero il proprio posto e si assumessero le proprie responsabilità, in ubbidienza alle direttive luminose espresse dagli insegnamenti che vengono dal pulpito, noi vedremmo ovunque un "popolo zelante in buone opere", ordinato, compatto e pronto a dare una testimonianza luminosa di saggezza e di equilibrio alla gloria di Dio.

COLLABORARE CON LUI NEL SERVIZIO DEL SIGNORE
Molti si lamentano, perché il pastore accentra tutte le attività della chiesa in se stesso, ma non so quanti ancora di questi si sono domandati il perché di questa sua attitudine. L’esperienza mi ha insegnato che, quasi sempre, il pastore "accentratore" è stato costretto a questa posizione da un popolo, che non è disposto ad eseguire o ad eseguire scrupolosamente il servizio del Signore. Un servo, che sente bruciare lo zelo di Dio nel proprio cuore, spesso, è indotto a fare quello che altri dovrebbero fare, ma che purtroppo non fanno.
Forse la legittimità di questa posizione è discutibile, ma indubbiamente essa è spiegata dalla situazione illustrata, che, se non giustifica pienamente il pastore nel compimento di opere, che non gli sono state espressamente "preparate" da Dio, non giustifica neanche il popolo infedele, che doveva compierle e non le ha compiute.
Purtroppo, molti condannano il pastore, che fa tutto, ma non sono però disposti a fare qualche cosa, per impedire che "uno solo" debba prendersi cura della pulizia e della manutenzione dei locali, dell’amministrazione della cassa, delle visite, della cura degli ammalati, delle assistenze, della Scuola Domenicale, dell’attività evangelistica. .. e poi anche della "preghiera e della Parola" (Atti 6:4).
Io vorrei conoscere, alla luce di Dio, quello che potrei fare io e vorrei manifestare la mia disposizione ed il mio entusiasmo verso l’opera, che potrebbe rendermi collaboratore del mio pastore nel servizio, anche umile, dell’Evangelo. Non m’importerebbe il genere di lavoro, grato od ingrato, palese o segreto, perché vorrei semplicemente impedire che il mio pastore fosse costretto a fare quel che potrei e dovrei fare io.
Oggi il numero dei sordi è aumentato e specialmente, quando sono rivolti appelli concernenti compiti senza onori, pochi mostrano di avere udito, ma io vorrei avere gli orecchi ed il cuore aperti, per essere sensibile ad ogni appello, che fosse rivolto alla mia coscienza affinché il mio pastore sapesse che almeno uno sarebbe sempre pronto nel servizio di Dio per la chiesa e per il mondo. Con una ramazza in mano per le pulizie della sala o con dei trattati da distribuire, presso il letto di un ammalato o in visita in una casa affranta dal dolore, davanti ad una scrivania, per scrivere lettere o davanti ad un gruppo di ragazzi come monitore... mi sentirei sempre un servo di Dio vicino al mio pastore.

SALVAGUARDARE LA SUA PERSONALITÀ DA INFIDI ATTACCHI.
È stato detto che, per distruggere l’equilibrio e l’ordine di una famiglia, è sufficiente demolire l’autorità del padre ed è stato anche aggiunto che, per distruggere l’equilibrio e l’ordine di una comunità, basta intaccare la personalità e l’autorità del pastore. Per questo motivo l’inferno suggerisce i più diversi metodi per far perdere stima e rispetto a coloro che sono stati chiamati da Dio, per essere conduttori del popolo.
Il mezzo più comune suggerito dal tentatore è costituito dalla maldicenza, che quando è esercitata con malefica abilità, riesce a fermare e neutralizzare l’opera del pastore, forse più di qualsiasi altra cosa, perché allontana la comunità da lui e la rende indifferente od ostile al suo ministerio. Non sono pochi i qualificati... cristiani, che raccolgono l’invito del diavolo per "sparlare" del proprio pastore e, generalmente, fra costoro non mancano mai i difensori di una giustizia, concepita sotto il profilo di una legalità arida e crudele.
D’altronde, trovare motivi di maldicenza non è difficile, perché, come ho detto al principio, il pastore non è perfetto e non è infallibile; sbaglia come gli altri e come gli altri deve perfezionare il proprio carattere, ancora lontano da quello del Maestro. Iddio lo ha costituito pastore, non perché lo ha trovato "perfetto", ma perché ha trovato nel suo cuore la disposizione e la consacrazione richieste per l’opera del ministerio.
Ma, ripeto, difetti ed imperfezioni non mancano nella vita del pastore e non mancano nemmeno nel seno della sua casa e della sua famiglia. Queste lacune dovrebbero essere "comportate" nella carità cristiana e, caso mai, dovrebbero essere affrontate con franchezza nell’esercizio della comunione fraterna. Anche un pastore può avere bisogno di esortazione e di consiglio e ogni fratello può, con amore sincero, esprimere queste cose al proprio pastore.
Il tentatore, invece, suggerisce di tacere davanti al pastore e di parlare o sparlare di lui dietro le spalle, suggerisce, come mettere in evidenza i suoi errori, le sue imperfezioni, forse, insegna il modo di ingigantire le cose, oppure di far dire tutto quel che è male e far tacere tutto quel che è bene. Non è "maldicenza" riferire il vero, non è peccato difendere la giustizia e far conoscere le cose che devono essere conosciute". Frasi come queste si odono continuamente nei circoli dei maldicenti, che sembrano essere i soli difensori della verità; essi sembrano ignorare che tutto quel che viene fatto o detto, per diminuire l’autorità del ministerio, rappresenta un grave peccato davanti a Dio e nei confronti della chiesa.
Le cose che i Corinti dicevano di Paolo erano vere, almeno in parte; quello che Aronne e Maria dissero di Mosè corrispondeva alla realtà, ma l’opera dei primi e dei secondi è stigmatizzata dalla Scrittura, come attività deleteria svolta, per rovinare l’opera del Signore. Quando un servitore di Dio è ritrattato, come incapace, indegno, disonesto; quando il suo ministerio è descritto con le tinte più fosche e con i termini più dispregiativi, difficilmente può ancora espletare il proprio servizio efficacemente nel seno della chiesa.
Le sue parole potranno tutto al più suscitare sarcasmi e raccogliere sorrisetti e le sue iniziative ed i suoi programmi potranno soltanto essere seguiti dall'indifferenza o dalle reazioni violente. Nessuno o pochi ascolteranno le sue parole, le sue esortazioni, le sue riprensioni, ma molti saranno pronti a dire più o meno apertamente: "Medico, cura te stesso e la tua famiglia! "
Se io avessi un pastore, non vorrei rendermi complice dell’opera demolitrice dei maldicenti, anzi, vorrei essere pronto a mostrare un viso sdegnoso a tutti coloro che vorrebbero farmi ascoltare le loro parole velenose.
Vorrei che il mio pastore avesse una vita santa ed una famiglia ordinata e, perciò, cercherei di essere al suo fianco con il mio affetto fraterno, per incoraggiarlo e al momento opportuno consigliarlo, ma mi guarderei bene dallo spiare la sua vita o la sua casa, per scoprire l’errore da mettere in mostra. Non vorrei ascoltare parole di maldicenza e non vorrei mai pronunciarle, anzi, quando sentissi circolare qualche voce negativa nei confronti del pastore, cercherei di individuarne l’origine per andare dal fratello o dalla sorella, che hanno promosso la cosa ed invitarli a venire con me dal servo del Signore, per parlare con lui affettuosamente, affinché gli sbagli fossero corretti e gli equivoci chiariti.
Si, vorrei che il mio pastore fosse sempre amato e stimato da tutti e nessuno perdesse la benedizione del suo ministerio. Senza farmi difensore del male o sostenitore dell’ingiustizia, cercherei di mettere in risalto il valore della unzione divina e quindi della "chiamata" di Dio. A coloro che sparlassero del pastore consiglierei di pregare per lui e, possibilmente, di parlare con lui, per chiarire, chiedere e, quando necessario, consigliare ed esortare.

PREGARE PER LUI.
Ho constatato che, nel seno delle comunità, si prega raramente per il pastore e, quando si prega, la richiesta raccoglie pochi "amen" da parte dei fedeli. Partendo da questa constatazione, oso concludere, e spero di sbagliarmi, che anche nelle case cristiane si prega poco per i conduttori; forse c’è indifferenza o forse molti pensano che un pastore non ha bisogno delle preghiere innalzate per lui: è abbastanza forte, e può andare avanti da solo.
Invece la storia cristiana, anche recentissima, c’insegna che il modo più sicuro, per sorreggere le braccia di un pastore, è proprio quello di pregare per lui.
Quando un servo di Dio sale sul monte del servizio, ha bisogno, come ebbe bisogno Mosè, di anime pie, pronte ad essere al suo fianco e, perciò anche oggi sono necessari novelli Aronne e volenterosi Hur, che sappiano costituirsi collaboratori di coloro che sono impegnati in un servizio di maggiore responsabilità.
Se avessi un pastore, vorrei pregare regolarmente per lui, ma soprattutto vorrei fare della mia intercessione un mezzo d’autentica comunione con lui. Non vorrei accontentarmi di pronunziare frettolosamente il suo nome, inserendolo meccanicamente in un elenco di altri nomi, forse pronunziati altrettanto frettolosamente, anzi vorrei fare una richiesta specifica e separata per la sua persona e per il suo ministerio.
Io credo che, consacrare una preghiera di intercessione ai bisogni del proprio pastore, sia altamente efficace, almeno, più efficace della richiesta gettata nel cumulo spesso troppo grande, di richieste, qualche volta generiche e qualche volta non "sentite". È inutile pronunciare il nome del pastore in orazione, se non si chiede qualcosa che si vuole realmente ottenere. Bisogna saper "combattere" in preghiera, bisogna sapere valorizzare quell’assistenza, che viene dall’Alto e che rende veramente potente l’intercessione e la richiesta dei santi.
La preghiera, dedicata fedelmente alle necessità del ministerio e alla persona del pastore, alimenta l’amore sincero per questi e perciò vorrei essere fedele nell’esercizio del mio compito di cristiano, anche, per impedire a me stesso di diventare insensibile ed indifferente verso il mio pastore. La comunione spirituale si concretizza su questo piano ed io vorrei avere sempre ed avere realmente comunione col mio pastore.
Ma, come ho già detto, la preghiera produce ricchezze, che superano quella della sola comunione, perché per essa il ciclo si apre e le benedizioni celesti discendono copiose. Ho udito e letto testimonianze preziose su questo soggetto e tutte mi hanno concordemente insegnato, che un pastore riceve sempre aiuto validissimo dall’intercessione, che i fedeli umiliano a Dio per lui.
Molti grandi predicatori del più lontano o recente passato hanno affermato che il loro messaggio era semplicemente l’espressione o la "misura" delle preghiere innalzate, forse nel segreto, dai più umili servi del Signore.
Il pastore dal pulpito e i credenti dal segreto delle loro camerette di preghiera hanno, uniti, realizzato un incontro con Dio ed hanno esperimentato l’assistenza dello Spirito di Dio. Da questa autentica comunione è scaturita, e scaturirà sempre, la manifestazione della gloria celeste. Io non vorrei dimenticare nessuna richiesta, anzi, vorrei veramente combattere in preghiera per la vita morale, per la vita spirituale, per la vita familiare, per il servizio del mio pastore; anche con fatica vorrei sempre sorreggere le sue braccia davanti a Dio per la benedizione del popolo di Dio, per la mia benedizione.

ESPRIMERE LA GRATITUDINE.
A questo punto potrei parlare dei doveri economici, che tutti i fedeli hanno nei confronti dei propri conduttori e, particolarmente, verso coloro che "faticano nel ministerio della parola" e potrei ricordare l’ordine paolino: "Colui che è ammaestrato nella Parola faccia parte d’ogni suo bene a colui che l’ammaestra"; oppure la rampogna dell’Apostolo ai contenziosi credenti di Corinto: "Se noi vi abbiamo seminato le cose spirituali, è egli gran cosa se mietiamo le vostre carnali?" Potrei, insomma, soffermarmi sul soggetto della liberalità cristiana che, include largamente il particolare relativo all'assistenza dovuta a tutti coloro, che predicano l’Evangelo e dedicano intera la propria vita nel servizio del Signore.
Preferisco, invece, trattare un aspetto marginale della questione, precisando che, se avessi un pastore, non vorrei essere avaro verso di lui e non vorrei neanche esercitare la mia generosità sotto la limitazione o l’ipoteca di calcoli e considerazioni aride e maliziose. Dare deve essere, soprattutto, espressione d’amore e l’amore, oltre che generoso, è sempre puro, benigno, pacifico, benevolente.
Ma, chiusa questa breve parentesi, aperta per precisare, torno a ripetere: preferisco trattare un aspetto marginale della questione: quello della gratitudine espressa in concreto. Un pastore non ha bisogno di plausi umani e di riconoscimenti sociali, ma, al pari degli altri, ha bisogno di quell'incoraggiamento, che viene anche dalla gratitudine espressa affettuosamente.
Possiamo rilevare, quando leggiamo le epistole di Paolo, che anche un grande apostolo come lui, avvertiva il bisogno di quelle espressioni di affetto e di gratitudine che si aspettava da coloro che erano stati particolare oggetto del suo servizio. Quando i Corinti, in risposta alla sua prima epistola, gli indirizzano parole di devozione filiale, e quando i Filippesi riescono a fargli giungere il frutto della loro generosità, Paolo si sente commosso e profondamente incoraggiato nel servizio del Signore.
In molti paesi di educazione evangelica i credenti usano ringraziare il pastore per il sermone predicato nella riunione di culto. Forse, questa consuetudine si è trasformata in una vuota e fredda formalità o, forse, quest’uso può essere sempre motivo di tentazione ad un cuore predisposto all'orgoglio, ma, sicuramente, questa norma è nata dalla necessità di esprimere la propria riconoscenza a colui che si è reso strumento di benedizione per la chiesa. Il pastore ha bisogno non di onori, ma di affetto, non di elogi vani, ma di gratitudine sincera, che sia una costante conferma dell’apprezzamento dato al suo servizio.
Io vorrei approfittare di ogni circostanza, per far sapere al mio pastore del mio affetto per lui e della mia considerazione per il suo lavoro e per i suoi sacrifici. Le espressioni della mia riconoscenza vorrei che fossero calde ed esplicite, affinché potessero tradursi in un reale incoraggiamento per il suo cuore. Una parola buona, un assenso entusiastico, una stretta di mano vigorosa, uno sguardo carico di affetto possono dare ad un pastore la spinta, che gli è necessaria, per continuare la strada in mezzo all'indifferenza di molti e all'incomprensione di altri. Vorrei, anche, e continuo a prescindere intenzionalmente dal soggetto dell’assistenza, dare forma alla mia gratitudine con quei "doni" che sono, come diceva Paolo, un "profumo soave". In determinate ricorrenze annuali, tutti abbiamo l’abitudine di gratificare coloro che hanno prestato il proprio servizio, qualche volta umile, a nostro favore; anche questa è un’espressione di riconoscenza che, purtroppo nella società moderna si è trasformata largamente in un formalismo senza sentimento.
L’usanza, comunque c’insegna che è doveroso esprimere la propria gratitudine verso coloro che lavorano per noi ed io vorrei far tesoro dì questo insegnamento, perfettamente in armonia con le Scritture, per cogliere le più opportune occasioni a favore del mio pastore. Qui, in modo particolare, i calcoli devono essere ignorati: non si tratta più di assistere, di sovvenire e, come dicono prosaicamente molti, di salariare, ma si tratta soltanto di esprimere affetto e gratitudine in forma concreta e in maniera tangibile.
Il pastore sarà beneficato sostanzialmente dal dono, ma più sostanzialmente ancora sarà rallegrato dal. sentimento che lo ha generato, dimostrazione evidente di un interesse vero, di un affetto sincero, di una gratitudine sentita.
Se avessi un pastore non vorrei fargli mancare la consolazione che deriva dalla constatazione chiara che il proprio ministerio è stimato ed apprezzato ed il proprio lavoro è seguito con attenzione e goduto con riconoscenza. Il mio dono. piccolo o grande, nelle ore più opportune, nei momenti più adatti, vorrei che ripetesse al suo cuore qualche volta stanco: "Coraggio fratello, perché io ti voglio bene"!
Fine